Indagini: Roma, 7 agosto 1990 - Prima parte
Il Post 6/1/23 - Episode Page - 54m - PDF Transcript
Una sera dell'ottobre del 1990, Umberto Improta, quest'Ore di Roma, partecipò a una trasmissione
televisiva della RAI. Guardando la telecamera disse, noi sappiamo chi sei, consegnati alla
polizia. Poi aggiunse, parlando al conduttore. L'assasino ha detto molto e bugie e sa di
aver mentito. Gode di complicità. Noi vogliamo capirlo e aiutarlo. Venga da noi.
E parli. Umberto Improta era convinto, e non era
solo, di aver individuato il colpevole di un omicidio avvenuto a Roma qualche mese prima.
Una ragazza di 20 anni era stata assassinata nell'ufficio dove stava lavorando, nei quartieri
prati. L'avevano colpita con quello che il medico legale definì un oggetto bitagliente con lama
non affilata. I colpi erano stati 29. Di quel delitto aveva parlato tutta Italia per
settimane. Era il giallo dell'estate. Così lo definivano i giornali. Le parole di Improta
in televisione furono irrituali, strane, anche fuori luogo. Fu una scena teatrale,
una sorta di sfida televisiva, lanciata a presunto colpevole, come in un film.
Quella sera, scrisse la giornalista Marina Garbesi su Repubblica, il delitto si trasformò
in un omicidio show, in giustizia spettacolo. Sono passati quasi 33 anni da quando Umberto
Improta disse quelle parole in tv. I 7 agosto 2023 saranno trascorsi 33 anni dal giorno
dell'omicidio. Pubblici ministeri si sono alternati nelle indagini e si sono alternati
anche i sospettati. Tre persone, in tempi diversi, sono stati indagate, anche arrestate
e processate. Tutte tre episte sono finite in flop processuali. L'assassino non è mai
stato individuato. La ragazza assassinata quel giorno d'agosto a Roma si chiamava Simonetta
Cesaroni. Venne uccisa in via Poma, a poca distanza da Piazza Mazzini e dal Centro di
Produzione della Rai di Via Teulata. Quella del delitto del 7 agosto 1990 è la storia
dell'omicidio di una ragazza ventenne, ma anche una storia a partire dalle ore dopo il
delitto e poi per molti anni a seguire, piena di bugie quasi grottesche, di errori, di sottovalutazioni,
di scelte giudiziari affrettate. Piena di non so, non ricordo, io non c'ero, io non
la conoscevo. È una storia di quelle che alla fine stingono a dire, ma come è stato possibile?
È una storia in cui qualcuno un certo punto ipotizza anche il coinvolgimento dell'inmancabile
banda della Magliana. Il gruppo criminale attivo a Roma per tutti gli anni 80 e fino
ai primi 90 e a cui sempre ci si aggrappa alla fine quando non si riesce a trovare la soluzione
di un crimine, di una strage, di un omicidio, di una scomparsa. È come se fosse un enorme
serbatoio di criminali a cui attingere di volta in volta per giustificare ciò che non
si riesce a capire. E di questa condizione di colpevoli di tutto, alcuni tra ex o presunti
ex, membri della banda, hanno approfittato per contrattare, insinuare e sostenere di sapere
ciò che invece non sapevano. Il delito di Via Poma è il cosiddetto Cold Case, Caso
Freddo e risolto più famoso d'Italia. Nella vicenda ci fu un arresto affrettato a furor
di popolo, come lo ha definito nella prefazione del libro chi ha ucciso Simonetta Cesaroni
della giornalista Raffaella Fanelli, Guido Salvini, magistrato, già consulente della
Commissione Parlamentaria Antimafia. È una storia in cui si ragionò a lungo su un foglio
trovato su una scrivania nel luogo dove era avvenuto il delitto. Su quel foglio c'era
il disegno di un popazzetto a forma di margherita e c'erano scritte le parole C, D, E, D, E,
morta. Intorno a quel disegno si ragionò molto, vennero fatte i botesi. Quel foglio l'aveva
lasciato in realtà una agente di polizia che si stava annoiando mentre aspettava i suoi
superiori. Lo si seppe però soltanto 18 anni dopo. E anche la storia in cui tracce di sangue
furono trovate solo 20 giorni dopo il delitto erano nell'ascensore. A vederle non fu
la polizia scientifica ma il figlio del custode dello stabile dove era avvenuto il delitto.
E la storia di un furto ha venuto anni dopo l'omicidio in una filiale della banca di Roma.
Furono forzate 147 cassette di sicurezza e tra queste ce n'era una intestata una
persona con un ruolo importante nella vicenda di quel delitto. Ha detto un investigatore con
gli strumenti scientifici che abbiamo oggi, quel delitto potremmo risolverlo in due giorni.
Luciano Garofano, ex comandante del RIS, reparto in investigazioni scientifiche dei
carabinieri, ha detto non esiste il delitto perfetto, esistono indagini imperfette.
Il 7 agosto 1990 fu sciso una ragazza, una famiglia subì un dolore inimmaginabile e da quel giorno
fu anche stravolta la vita di alcune persone. Il delitto del 7 agosto 1990 è uno di quelli
per cui si dovrebbe poter cancellare tutto e ripartire da capo, annullando errori e preconcetti.
Ci si torrebbe dimenticare della pressione dei media, dell'opinione pubblica che
spinsero a fare in frette e a fare sbagli. Bisognerebbe ripartire tornando a quel complesso
di edifici, denominato Casa della Cooperativa Hala, in Viapoma, li cui scale sono segnate
dalle prime sei lettere dell'alfabeto. Gli ingressi sono in Viapoma 2 e 4 e un altro
in Viandereoli 1. In quel complesso di edifici, se anni prima dell'omicidio di Simonetta Cesaroni,
era stata assassinata una donna di 68 anni, soffocata con un cuscino. L'assassino non viene
mai trovato. Il complesso di Viapoma 2 viene costritto nel 1937 e lo progetto l'architetto
Cesare Valle, che avrà un ruolo poi in questa storia. C'è un grande cortile con una fontana
al centro con i pesci rossi, poi altri due cortili e i giardini. Nei cortili a centrale erano
state girate alcune scene del film Mignone Partita di Francesca Archibucci. Gli appartamenti sono
90, i portieri sono 3, fanno i turni. È come un piccolo villaggio a sé nella città.
Bisognerebbe tornare a quei giorni e guardare dall'alto per vedere i protagonisti di questa
storia, muoversi tra i palazzi e i cortili, trompiano l'altro, tra i portoni e la fontana e
attraversi i corredoi sotterranei delle cantine, che collegano un portone e un altro, tra tante
bugie e attrattanti, ma donali errori. Io mi chiamo Stefano Nanzi, faccio il giornalista da tanti
anni e nel corso della mia carriera mi sono occupato di tante storie come questa, quelle che
nel tempo vi sono diventate familiari e altre che potreste non avere mai sentito nominare.
Storia di Cronaca, di Cronaca Nera, di Cronaca Giudiziaria. Il podcast che state ascoltando
sentito la indagini ed è prodotto dal post. Vi racconterò ogni mese una volta al mese una
di queste storie, tentando di mostrare non tanto il fatto di Cronaca in sé, il delitto in sé,
ben situto quello che è successo dopo, il modo in cui si è cercato di ricostruire la verità.
Le indagini giudiziari e i processi con le loro iniziative, le loro intuizioni e loro
errori, in modo in cui le indagini hanno influenziato la reazione dei media e della società e il modo
in cui media e la società hanno influenziato le indagini.
Simonetta Cesaroni viveva, con i genitori alla sorella Paola, nei quartieri Dombosco,
a Roma, nella periferia est, a ridosso del grande raccordo annulare. Lavorava a Larelli,
in via Maggi, nel quartiere Casilino. La Reli era una società di consulenza contabile gestita
da due soci, Hermanno Bizzocchi e Salvatore Volponi. Sono nomi da tenere in mente perché
torneranno nella storia di queste indagini. Due giorni alla settimana, solitamente il martedì
e il giovedì, Simonetta Cesaroni va imprestito alla AIAG, Associazione Italiana alberghi della
Gioventù, società di cui è presidente l'avvocato Francesco Caracciolo di Sarno,
conoscente di Bizzocchi. Anche il nome di Caracciolo di Sarno è uno di quelli da tenere
in mente. La AIAG è in via Poma 2, appartamento 7, Scala B, terzo piano. Nella stessa scala,
nel lattico, vive Cesare Valle, l'architetto che tanti anni prima ha progettato il complesso.
Simonetta Cesaroni ha iniziato a lavorare per la railing nell'Ottobre del 1989, guadagna
400 mila lire al mese. Oggi sarebbero poco più di 410 euro. Diventano 600 mila e cioè
circa 580 euro quando dal 19 giugno comincia a recarsi due giorni alla settimana nella sede
dell'AIAG, l'Associazione degli Ostelli della Gioventù, per inserire dati contabili nel computer.
Non è assunta, non c'è nessun contratto regolare. Nel 1995 la famiglia Cesaroni farà causa
la società e i due soci titolari diranno che la ragazza non era una dipendente ma andava negli
uffici della railing solo per esercitarsi al computer. Il tribunale li condannerà al
risarcimento e al pagamento dei contributi arretrati. L'accordo tra le due società prevede
che la ragazza lavori a l'AIAG due giorni alla settimana per tre ore. Di 7 agosto 1990 è
suo ultimo giorno di ufficio, poi andrà in vacanza con alcuni amiche. Simonetta ha un fidanzato,
ma il rapporto è incostante, lei più coinvolta lui meno. Il ragazzo si chiama Ragniero Busco,
a 24 anni, lavora all'aereoporto di Ciampino. Per molti anni resterà i margini di questa storia.
Dopo il delitto, gli investigatori si concentrarono molto sulla quotidianità di Simonetta Cesaroni,
sulle amicizie e sulle frequentazioni. Non emersa in nulla, se non che la ragazza aveva detto di
aver ricevuto in ufficio, nelle settimane precedenti l'omicidio alcune telefonate mute.
Marte di 7 agosto, Simonetta Cesaroni arrivò in Via Poma, secondo le ricostruzioni, intorno alle
16. Non c'era nessun altro nella sede dell'Iagg quel giorno. Si era messa ad accordo con Salvatore
Volponi e suo capo Allarelli, che l'avrebbe chiamato tra le 18 e le 18.30, per dirgli che
stava ultimando il lavoro. Quella telefonata non venne fatta.
Alle 16.37, il computer DG10, utilizzato da Simonetta Cesaroni in Via Poma,
registra un'operazione di salvataggio dei dati, così stabili una perizia, del 27 agosto 1990.
Alle 17.15, la ragazza chiama un'impiegata dell'Iagg, Luigina Berrettini, per avere alcune
informazioni. A sua volta, Luigina Berrettini chiamo un'altra impiegata per avere quelle
informazioni. Quindi richiama a Simonetta alle 17.25, le dà le informazioni, parla un po'
delle vacanze. Simonetta dice che partirà pochi giorni dopo. Ha in programma di tornare
il 3 settembre, in quei 55 minuti, cioè tra le 17.25 e 18.20, quando avrebbe dovuto chiamare
Salvatore Volponi, secondo le indagini che seguirono, Simonetta Cesaroni fu uccisa.
Alle 20.30, la madre della ragazza chiede alla figlia Paola di andare a cercare la sorella,
è strano che non si è ancora tornata. Solo che Paola Cesaroni non sa dove andare,
perché nessuno in famiglia conosce l'indirizzo dell'Iagg. Si sa solo che due giorni alla
settimana Simonetta prende la metropolitana per andare in un ficio in zona Prati. Allora
Paola, accompagnata dal fidanzato Antonello Barone, prima per correre la strada tra
casa e la metropolitana. Poi torna a casa e telefona Salvatore Volponi, il capo dell'Areli.
Il telefono è sempre occupato. Allora va a citofonarli, non abita distante.
In 1990, è l'anno in cui in Italia arriva la rete TAX per i telefoni cellulari,
ma erano in pochissimi ad averli. Le comunicazioni avvenivano solo o quasi esclusivamente,
attraverso la rete fissa. Al citofono Volponi dice che non sa nulla di Simonetta,
che lei avrebbe dovuto chiamarlo entro le 18 e 30, ma che quella telefonata non c'è stata.
Paola Cesaroni sale in casa di Volponi. Lui dice di non avere idea di dove si trovi la sede
dell'Iagg, inizia a fare delle telefonate dopo aver preso un'agenda. Ai numeri composti non
risponde nessuno. Paola Cesaroni allora esce da casa di Volponi e torna verso casa sua,
dove i genitori stanno aspettando notizie. Ecco cosa disse l'8 agosto,
nel corso della sua deposizione, dai verbali della polizia.
Esco dalla casa di Volponi alle 21.20, 21.30 circa. Ritorno con Antonello verso la metropolitana
e poi ancora a casa. Mia madre sempre dalla finestra mi dice che Simonetta non si è ancora
vista. Ritornò immediatamente da Volponi, decisa a trovare la via dell'ufficio.
Arriva anche la muoie e in bestaia, forse era già a letto. Volponi va nella stanza
da pranzo per cercare il nominativo di una signora che nel pomeriggio avrebbe dovuto telefonare a
Simonetta in ufficio o addirittura raggiungerla. Non ricordo di preciso. Nel frattempo sono
l'analla porta e il fio Luca. A questo punto, Salvatore Volponi decide che il caso di andare
in via Maggi dovesse delarelli. Ricchiamo, dice per l'ultima volta l'avvocato Caraccio e mi
fa notare ancora una volta che non risponde nessuno.
È una cavallarsi di telefonate fatte a vuoto e di atteggiamenti incomprensibili.
A un certo punto Volponi dice, chiamo Hermano Bizzocchi, mio socio. Lui sa sicuramente l'indirizzo,
solo che non può chiamarlo. Il socio è in un campaggio in Calabria. Allora Volponi
chiama l'ex-mulio di Bizzocchi che li dà il nome di un campaggio, l'Ollionio Blue a Bianco,
in provincia di Reggio Calabria. Volponi chiama il dodici e chiede il numero del campaggio.
Il dodici era allora il numero della Sib, società italiana per l'esercizio telefonico,
l'azienda che ha preceduto la telecom. Era il numero a cui telefonare per avere notizia
sugli abbonati. Perché allora non chiedere direttamente al dodici il numero dell'Iag?
Possibile che Volponi non ricordasse nemmeno il nome della società dove Simonetta veniva
mandata a lavorare due volte alla settimana? Al camping Ionio Blue dicono che non sanno come
rintracciare Bizzocchi. È in quel momento, tra una telefonata e l'altra, che Salvatore Volponi
ci trattare parole o stelli della gioventù. Ancora dal verbale di Paola Cesaroni.
Volponi non chiama più associazione a quell'ufficio, ma o stello della gioventù.
E così finalmente prendo le pagine gialle e trovo la via e il numero di telefono
degli uffici. Sono in via Poma. Sono gialle 23 quando ci andiamo. Luca guida l'auto. Volponi
è seduto davanti, io andrò nello dietro. Salvatore Volponi in macchina è agitato.
Parla continuamente della mancata telefonata con Simonetta. Ricordo che,
teneva le mani serrate tra le gambe, poi gesticolava e si toccava i capelli.
Mostrava una agitazione che non aveva alcuna ragione d'essere. Infatti, in quel momento ero
si preoccupata, ma non certo disperata. Intanto, Bizzocchi ha richiamato. Ha dato
l'indicazione esatta dell'ufficio. Paola Cesaroni e fidanzato Antonello,
Salvatore Volponi accompagnato dal figlio Luca, escono, vanno in via Poma 2. Luca Volponi
scavalca il cancello e apre agli altri, entrano. Vanno alla Palazzina B, quella indicata da
Bizzocchi. Cercano il custode Pietrino Vanacore. Lui non c'è, alcune notti va a dormire
dall'architetto Valle, nell'attico. E Anziano ha bisogno di assistenza. C'è per
la moglie Giuseppa De Luca e con lei ci sono Mario Vanacore, il figlio che Pietrino Vanacore
ha avuto da un precedente matrimonio, e sua moglie. Giuseppa De Luca è perplessa, non sa
che fare. E a quel punto che Paola Cesaroni sostiene di aver sentito Volponi dire alla
moglie del custode. Signora, si ricorda di me? Volponi negherà sempre questa circostanza.
Dirà sempre che lui in via Poma 2 non c'era mai stato. Ma Giuseppa De Luca lo confermerà,
e lo confermerà anche Mario Vanacore. Alla fine sargono tutti al terzo piano, ma sono già
passati 15 minuti, forse venti. La porta degli uffici dell'IAC è piusa con quattro mandate.
Ricordò Lucio Molinaro, avvocato della famiglia Cesaroni, nella serie delitti di historici
Channel. Li portò lì al piano dove era l'appartamento e apri lei con la chiave,
commentando anche che era chiusa a quattro mandate. Come per tranquillizzarli che non c'era niente
di preoccupante perché una porta chiusa a quattro mandate non dovrebbe suscitare sospette.
Entra Volponi dice, qui non c'è nessuno. Poi, però, va avanti nell'ufficio, guarda
nelle stanze. Quindi, raccontò Paola Cesaroni, si dirige in fondo al corridoio sul lato destro.
Torna indietro con le mani in testa chiamando Antonello e suo fidanzato. Antonello venga a
vedere con me tenete Paola. Paola Cesaroni, però, va immediatamente alla porta dell'ultima
stanza destra. Raccontò quello che vide. Simonete era a terra, distesa sulla schiena. Il capo era
reclinato di lato. Paola disse di aver visto i buchi sul corpo della sorella, all'altezza del
petto sul lato sinistro, non vide sangue per terra. Paola Cesaroni corre a telefono,
nella stessa stanza dove si trova il corpo della sorella e chiama il 113. Poi tutti escono
dall'ufficio. Giuseppa De Luca chiude la porta con quattro mandate. Vanno in cortile.
Alle 23.40 arrivano le volanti, 11, 12 e 18 della polizia. Tre agenti salgono di corsa
le scale, ma ridicendono subito. La porta è chiusa, chi ha le chiavi chiedono. Qualcuno indica
Giuseppa De Luca. La reazione della donna è assurda. Dice, ma che succede qui? Cosa è
questa confusione? Come se fosse entrata improvvisamente in una stanza dove dei bambini
stanno giocando e gettando tutto all'aria. I poliziotti chiedono le chiavi. La donna
continua a ripetere, insomma, si può sapere che cosa sta accadendo? Ma le e le chiavi o no,
domandano ancora gli agenti. Giuseppa De Luca fa un passo indietro, fa segno di no con la
testa. Paola cesaroni quasi urla, ma come? Ce le ha dietro alla schiena, in mano. Il poliziotto
praticamente strappa dalle mani di Giuseppa De Luca le chiavi dell'ufficio del terzo piano.
Che le cose andarono così, lo raccontò anche il poliziotto, che poi ottenne le chiavi.
Sono iniziate le bugie, le retricenze, anche più assurde, le assenze, i tentativi di non
essere coinvolti, forse anche solo di non avere scocciature.
Poi in via Poma arrivano tutti. Arrivano agenti e dirigenti della squadra Omicidi,
arriva il sostituto procuratore di Roma, Pietro Maria Cattellani. Ma arriva anche,
senza che la sua presenza venga registrata, Sergio Costa, genero dell'allora capo della
Polizia Vincenzo Parisi. Della presenza di Costa in via Poma si parlerà molto perché era membro
d'essiste, servizio per la informazione e la sicurezza democratica, il servizio segreto civile.
Costa dirà anni dopo, in un'intervista settimanale gente. All'epoca non ero assiste,
perché qualche mese prima mi avevano trasferito la questura di Roma, per cui quando andai non vestivo
le funzioni di agente dei servizi ma quelle più modeste di responsabile di una centrale operativa.
Io ero il Polizia VIII che ricevete la chiamata del 113 e mi attivai precipitandomi con un collega,
l'ispettore Gianni Pizzalis, sul luogo dell'Omicidia.
Ma allora perché la sua presenza non venne registrata? Come avrebbe dovuto essere secondo
protocollo? La sua presenza in via Poma farà suggerire sospetti molti anni dopo,
di un ruolo dei servizi segreti nella vicenda. Lo vedremo più avanti.
Torniamo a quella notte in via Poma. La scena del crimine non viene, come si dice, congelata,
ma non è nemmeno minimamente tutelata, entrano in molti. La scena del crimine dovrebbe essere
delimitata dal naso rosso e bianco in dotazione alle forze di Polizia. A quel punto, secondo l'articolo
348 del Codice di Procedura Penale, la Polizia Giudiziaria, e quindi anche la Polizia Scientifico
e il Ris dei Carabinieri, procede, dice l'articolo di legge, alla ricerca delle cose e delle tracce
pertinenti al reato nonché alla conservazione di esse e dello stato dei luoghi, alla ricerca delle
persone in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti.
Inoltre, secondo un altro articolo, il 354 del Codice di Procedura Penale,
la Polizia Giudiziaria si assicura che, ancora testualmente, le tracce e le cose pertinenti al
reato siano conservate e che lo stato dei luoghi e delle cose non venga mutato prima
dell'intervento del pubblico mistero. Per prima cosa, la Polizia Giudiziaria deve
annotare tutte le attività svolte dagli agenti delle volanti intervenuti prima.
Il verbale deve essere compilato seguendo un ordine preciso, la descrizione della scena,
le riprese video e fotografiche della scena, la descrizione planimetrica. Quindi la scena
dei crimine viene divisa per settori e si passa un'osservazione più dettagliata
seguendo regole precise, dal generale al particolare, da destra verso sinistra,
dall'alto verso in basso. Gli operatori devono indossare tutta calzari e guanti per effettuare
il rilievi su un corpo, che anche in questo caso devono procedere dall'alto in basso,
cioè dalla testa, bisogna attendere l'arrivo di un medico legale. Per rimuovere il corpo serve
l'autorizzazione del magistrato. Con il giorno del 1990, le cose andarono un po' meno ordinate.
Ricorda Raffaella Fanelli, giornalista e scrittrice, autrice del libro Chi ha ucciso Simone Cesaroni.
La scena dei crimine fanno tanti errori, tanti errori madornali peraltro, perché
una poliziotta si visa a disegnare su un foglio di carta una margherita un fiore che fu
attribuito all'assassino per anni, in realtà era stato appunto questa gente di polizia a
fare questo disegno. La segreteria telefonica fu cancellata in computer, dove si vorreta
la cesarone stava lavorando, la presa fu statata di impronte inseguinata ad una scarpa rimase per
giorni su piano rossolo e poi si capì che era stata insciata da un poliziotto sbadato.
Gli errori sono stati tanti, addirittura un poliziotto prese dalla borsa di Simone Cesaroni,
con la prescrizione medica che ci spresse dietro, uvvano il telefono, sono stati tanti,
anche la presenza di Sergio Costa. Sergio Costa era un funzionario del SISV,
distaccato alla questione di Roma proprio in quelle settimane. Sergio Costa era il genero
dell'ex capo della polizia vincenzo parì. Lui arrivò fu uno dei primi ad arrivare in
Viapoma, eppure non c'è traccia della sua presidenza nei verbali, nei rapporti e redatti
dalle varie volanti interventi. Perché nessuno parla di Sergio Costa, che chi contosse le
poche le indagini, evita di fare quel nome, eppure Sergio Costa furtiva ad arrivare ed era un
funzionario del SISV. Armando Palmejani, criminalista ed esperto di scene del crimine,
concorda nel dire che ci furono sicuramente errori, ma che sempre opportuno ricordare
che le indagini per il delitto di Viapoma risalgono a un periodo in cui le analisi
scientifiche, quelle che riguardano soprattutto i reperti biologici, erano all'inizio, almeno in
Italia. Ci furono sicuramente dei errori, ma in parte dovuti a una casualità ad azioni,
nel senso che in quel momento arrivarono più persone sul posto, diverse uffici come le volanti,
la squadra mobile, il commissariato, e ci fu un po' di mancanza di coordinamento. Però
ricordiamoci che in quel momento c'era un punto fondamentale che era il DNA, che ancora doveva
assurgere a un elemento fondamentale. I analisi ancora non erano complete e a livello di adesso.
Ovviamente una cosa del genere comportava che c'era poca abitudine da parte dei operatori a
salvare, non salvaguardare la scena del crimineo a punto di vista biologico. A quel punto era
in esisteva l'impronta digitale e poco altro. C'era tutta la parte criminalistica interessante,
ma che non poteva essere applicata in questo caso, quindi c'era una non cultura della traccia
biologica. I documenti del sopra l'uogo del 7 agosto 1990 descrivono che cosa osservarono
gli operatori della polizia scientifica. È una descrizione fredda, compilativa. Serve però
a capire su quali elementi l'investigatore si basarono per avviare le indagini. Chi
preferisse non ascoltare può andare avanti di 50 secondi. Il cadavere già c'è supino sul
pavimento a 178 centimetri dalla parete anteriore e a 251 dalla parete destra. Presentano numerose
evidenti ferite, presumibilmente di punte di taglio, interessanti le regioni infrorbitali,
giugulare, toracica, addominale e pubblica, d'alcune delle quali fuoriece sangue. Vengono
osservate bistose chimosi alla regione orbitale sinistra e in corrispondenza delle anche. Il
reggiseno che la ragazza indossa alla spallina destra arrotolata è macchiato di sangue sulle
bretelline. Il top sbottonato e appoggiato sulla regione epigastrica è invece bianco,
non si è sporcato di sangue. Sul pavimento c'è una striatura di sangue appena visibile e un
mollettone per capelli, spezzato. Simonetta Cesaroni indossa calzini bianchi. Non lontano
dall'angolo anteriore e destra della stanza ci sono le scarpe da ginnazica della ragazza in
tessuto jeans, marca Rontani numero 37. Come sono state allineate quelle scarpe,
verrà considerato un elemento importante durante le varie inchieste. Secondo una teoria
investigativa vennero lasciato in quel modo dall'assassino. Dice però Armando Palmejani.
Allora credo che possiamo parlare in una costruzione la scena delle crimine però
rimaniamo con il dubbio, mi spiego. Le scarpe sono appoggiate nell'angolo anteriore
destro, appagliate come suol dire. Lì per lì possiamo pensare a una manipolazione,
il fatto di averle messi a qualcuno in quella posizione. Anche perché faccio sempre un esempio,
se noi andiamo a leggere il rapporto medico-legale leggiamo che Simonetta Cesaroni indossava
due calzini bianchi. Se noi leggiamo il rapporto della Polizia Scientifica, la Simonetta Cesaroni
indossava due calzettoni bianchi ombrati. È un piccolo particolare che ovviamente era
impossibile vedere tramite le fotografie però fa capire che Simonetta Cesaroni con
quei calzettoni è camminato su quella paimentazione o altamente è probabile.
Se noi pensiamo a questo dobbiamo pensare che non c'è stata una grossa manipolazione
della scena con le due scarpe. Il corpetto sopra invece possiamo dire che è interessante,
potrebbe rientrare uno staging in particolare nell'and only, cioè il coprol anche in questo caso
parzialmente il corpo. Cioè mette un qualcosa tra me e quello che ho fatto il corpo. Ok,
quindi quel corpetto sul corpo può pensare uno staging in particolare da sua forma di
undoing. Undoing, cioè in termini criminologici, nascondere in primo luogo a sé stessi ciò che
si è fatto. Uscendo di casa quel giorno, Simonetta Cesaroni indossava un paio di pantaloni
blu elasticizzati, una giacca bianca righe blu di cotone con tre bottoni, un top di pizza sangallo,
un reggiseno, gli slip, dei calzini bianchi corti e scarpe da ginnastica blu. Quando viene
scoperto il delitto, ha indosso solo il reggiseno, i calzini e il top ha daggiato sul ventre. A parte
le scarpe che come detto sono poco distanti, il resto degli indumenti è scomparso. Sono
spariti anche i gioielli di poco valore che la ragazza indossava quel giorno, un anello,
un girocollo, un braccialetto, una catenina e gli orecchini. Sono scomparse 50 mila lire che
aveva nel portafoglio e scomparso anche il mazzo di chiavi dell'ufficio. Non verrà mai più ritrovato,
così come non verranno ritrovati gli oggetti scomparsi. Nella borsetta di Simonetta Cesaroni
ci sono i negativi di alcune fotografie e anche alcune stampi. Quelle foto gli aveva scattate
un ex fidanzato al mare. Sono le stesse fotografie che da allora compaiono sulle
pagine dei giornali quando si parla del caso di Viapoma. Non si è mai capito perché la ragazza
le avesse con sé quel giorno. Sulla porta della stanza dove è stato trovato il corpo ci sono
tracce di sangue. Sul lato interno ci sono tracce del gruppo A, sulla parete esterna invece del
gruppo zero. Altra e lievi tracce ematiche vengono rinvenute sul telefono in un'altra stanza.
Anche ciò che disse il medico legale è un rapporto crudo e freddo. Il riassunto della
relazione dura 50 secondi. Secondo il rapporto del professore Ozrem Karella Prada, Simonetta
Cesaroni è stata colpita con un violento schiaffo alla tempia destra. Il colpo da sinistra verso
destra e dall'alto verso il basso è stato dato a mano aperta. I colpi d'arma ricevuti sono 29,
ma le ferite sono 30 perché quello al collo è da parte a parte. La profondità massima
delle lesioni è di 11,5 centimetri e la lunghezza massima di 1,3 centimetri. 6 ferite sono state
inferte agli occhi, otto al petto e all'addome. Gli altri colpi sono stati al basso ventre,
6 alle parti intime. Scrisse il medico legale nella sua relazione. Si dà atto che non emergono
al carico delle regioni genitali e paragenitali segni riferibili a violenza di significato
sessuale. Il medico legale annota che presente, sul seno sinistra, un segno come di un morso. Ne
disegno che allega la descrizione dell'autopsia accanto alla parola morso, mette un punto di
domanda. Quella piccola ferita sarà determinante in un'aula di tribunale molti anni dopo.
Odrem Carella Prada ipotizzò nella sua relazione che l'omicidio fosse probabilmente avvenuto dopo
ripetuti e vivaci rifiuti espressi da Simonetta Cesaroni o anche da propositi divulgativi.
Questo avrebbe provocato una furia omicida tesa raggiungimento del silenzio testimoniale
attraverso un aberrante e rappresentativo cerimoniale punitivo. In pratica secondo il
medico, Simonetta Cesaroni avrebbe respinto degli approcci ripetuti e avrebbe forse minacciato di
denunciare o perlomeno raccontare ciò che stava accadendo. A quel punto l'assassino avrebbe
iniziato a colpirla e avrebbe messo in atto quello che il medico definì appunto aberrante e
rappresentativo cerimoniale punitivo colpendola sugli occhi e nella zona genitale.
Dice la criminologa Valentina Marsella. Un omicidio molto particolare che ha diverse
componenti. Sicuramente una componente di aggressività molto spinta, molto forte,
una compulsività nell'inferire le lesioni, l'overkilling, aspetti sessuali legati alle
zone colpite, seni, pube, vagina, il ritrovamento del cadavere supino con tutte quelle parti
sessuali esposte chi sarebbe poi entrato successivamente sull'ascendere il crimine. Quindi
l'aspetto non soltanto dell'abeumanizzazione, ma proprio di un disprezzo della persona.
Il tratto che è comune a questa tipologia di assassini a sfondo sessuale è il disprezzo
per la vittima. Nella fatti specie, quindi nel caso di Simonetta, questo disprezzo inteso
come disprezzo per la figura femminile. La ragazza sui fianchi, inoltre due lesioni simmetrici al
bacino che sembrano essere appartenenti alla pressione che l'aggressore può aver esercitato
sulla vittima secondo il medico legale con le ginocchia, quindi nel tentativo di immobilizzarla
e tenendo la diversa al suolo supino al fine di rendere piorgevole l'operatività
allesiva, ricordiamoci, il 30 coltellate, operatività caratterizzata da un frenetico
convulso e rapido a realizzarsi, parola del medico legale, che noi andiamo a confermare
effettivamente 30 coltellate e parliamo di overkill. Quindi non era necessario darmi
ne 30, l'assassino è infierito sulla vittima. E questo è un altro elemento importante, la
compulsività dell'operatività allesiva, quindi una difficoltà a frenarsi, a contenersi e potrebbe
presumibilmente indicare, ad esempio, che l'aggressore la conosca, che quindi fosse nota, fosse
persona nota, oppure che somigliasse ad una persona che gli ricordava l'oggetto tanto odiato,
quindi una proiezione, diciamo così, di questo odio sulla vittima, agisce onder violenza per effetto
un punto di questa proiezione. Secondo il medico legale, Simonetta Cesaroni ha morta da 7 a 12 ore
prima del sopra l'uogo che avvenne alle 2 del mattino, dell'8 agosto. L'arma del delitto è scritto,
va identificata in un mezzo da punta e taglio con peculiarità bitagliente,
ma non dotata di particolare azione arrecidente e penetrata segnatamente
in virtù della sua estremità aguzza.
Probabilmente, ipotizza Carella Prada, si tratta di un taglio a carte.
Nell'ufficio di Viapoma ci sono due tagli a carte, sono entrambi puliti.
La proprietaria di uno dei due dice che la mattina del 7 agosto
non aveva visto il taglio a carte sul suo tavolo.
Viene ritrovato sopra un altro tavolo.
L'ipotesi del taglio a carte però non è mai stata confermata
e anzi, proprio recentemente, è stata fortemente messa in dubbio.
Ecco cosa dice Igor Patruno, giornalista e scrittore, autore del libro
Il Delitto di Viapoma, 30 anni dopo.
Io sono convinto che il taglio a carte non è stata l'arma del delitto.
La questione del taglio a carte nasce da un equivoco.
E quale è l'equivoco?
Il fatto che, con lei che lo utilizzava,
Maria Luisa Sibilia, un'altra impiegata del comitato regionale degli Osterli,
proprio quel giorno il 7 agosto tornava dalle ferie.
Proprio quel giorno cercò il suo taglio a carte
perché doveva aprire della posta e proprio quel giorno non lo trovò.
Ora però, la stessa Maria Luisa Sibilia
ammise che era molto distratta e che avrebbe benissimo potuto aver cipoggiato la borsa sopra.
E quindi non averlo visto.
Chi avrebbe invece dovuto vederlo?
Il medico legale.
E il medico legale l'ha visto?
No.
L'ha visto in fotografia.
Ma non gli è stato dato.
Quindi il medico legale ha potuto confrontare l'ampiezza delle ferite,
i margini, come si dice, con l'ipotetica arma del delitto.
No.
Un'altra stranezza.
Il medico legale vede il taglio a carte solo in fotografia.
Sul corpo di Simonetta Cesaroni non compaiono se niente difesa.
Non c'è stata una lotta.
Il top è stato messo sul cadavere dopo la morte,
quando il sangue era già coagulato.
Quindi o l'assassino si è fermato a lungo dopo il delitto,
oppure tornati in un secondo momento.
O ancora qualcun altro ha messo il top sul corpo di Simonetta per coprirlo.
C'è pochissimo sangue sul pavimento.
La scena, dicono gli investigatori, è stata ripulita.
Ma secondo tesi, che sono invece state formulate negli anni successivi,
non ci fu in realtà pulizia della scena dei crimine.
Il corpo, supino, avrebbe trattenuto il sangue.
Nello scabuzzino ci sono stracci umidi,
ma gli investigatori accertano che non sono stati utilizzati quelli per pulire la scena.
È più probabile che sia stato usato, dicono sempre gli investigatori,
materiale cartaceo o di spugna, poi portato via.
Kindag è convinto che l'assassino sia un cosiddetto territoriale.
C'è qualcuno che ha confidenza con quell'uodo.
Magari non con l'ufficio, ma certamente con l'edificio.
I giornali, nei giorni seguenti, titolano
«Resiste la violenza, uccisa coltellate»
o anche «Sesso e sadismo si mescolano in un cotta e il macabro».
Tra 8 e 9 agosto ci sono gli interrogatori.
Viene sentito il fidanzato di Simonetta Cesaroni,
Rania Robusco, che racconta così il suo rapporto con la ragazza.
Voglio precisare che il nostro rapporto sentimentale non è equilibrato,
nel senso che io nutrivo un semplice affetto nei suoi confronti,
mentre lei mi ammava strenuamente
e a volte mi faceva capire che da me pretendeva un maggior convolgimento.
Io, dato che lavoravo all'Italia, con la qualifica di operario,
incontravo Simonetta soprattutto il sabato e la domenica,
mentre i nostri incontri settimanali erano più saltuari.
Vengono ascoltati tutti i dipendenti dell'IAG,
l'Associazione degli Osterli della Gioventù.
Tutti dicono di non aver mai conosciuto Simonetta Cesaroni,
non vogliono guai.
Stanno quasi tutti partendo per le vacanze,
tentano di restare il più lontano possibile da questa storia.
Viene ascoltato anche Francesco Caraccio Lo Disarno.
Si tratta di una carica honorifica che ho assunto volontariamente
per impegno sociale.
Abito a 50 metri dal palazzo di Via Poma 2.
Mia figlia Giulia, che vive con la mia ex moglie in via Trionfale,
il 7 agosto 1990 è partita da Fiumicino per Rodi con l'aereo delle 21
e ha lasciato la sua macchina in via Baia Monti davanti al mio palazzo.
Pertanto quel pomeriggio lo ho spettata davanti al mio portone.
Mi ha telefonato verso le 17
per dirmi che ci saremmo visti alle 17.45.
Sono uscito alle 17.30 credo
e dopo una vicina di minuti è arrivata mia figlia.
Non so dire se sono impossesso delle chiavi dell'appartamento di Via Poma 2.
Mi sembra di ricordare che una volta in passato mi sono state date.
Se non le ho restituite potrebbero trovarsi ancora nel mio studio.
E sul custodio è Pietrino Vanacore che si concentrano le attenzioni delle investigatori.
Interrogato dal magistrato dice che alle 17.25 e 7 agosto
si trovava in un negozio di ferramenta dove ha comprato un frullino.
Poi dice sempre nell'interrogatorio
mi sono arrecato ad annaffiare le piante in due appartamenti,
uno nella scalacia, al secondo piano,
l'altro sempre nella scala C, al piano terra.
Dice che si è trattenuto a dare l'insetticida fino dopo le 18.
Alle 18.10 si è arrecato vicino alla vasca dei pesci rossi
dove c'erano la moglie, figlio e la nuora con due inquiline di Via Poma.
Alle 22.30 doveva salire dall'architetto valle per la notte.
L'architetto dice però che Vanacore è arrivato solo alle 23.
Anche il fatto che sia salito negli appartamenti è innaffiare le piante,
non è verificabile.
Durante una perquisizione domiciliare la polizia trova,
nell'abitazione di Vanacore, un paio di pantaloni con macchie di sangue.
Il 10 agosto, il custode di Via Poma 2,
viene sottoposto a fermo di polizia giudiziaria.
Così, in una conferenza stampa, viene data la notizia.
Questo signore, che si chiama Pietrino Vanacore,
attualmente si trova in stato di ferro di polizia giudiziaria,
perché è gravemente indiziato di omiciglio volontario
e quindi da due ore associato a Regina Cevi.
Il 14 agosto l'arresto viene convalidato.
Secondo l'ipotesi del Pubblico Ministero,
Vanacore avrebbe ucciso Simonetta Cesaroni nel pomericcio
e poi sarebbe tornato nell'appartamento per ripulire
e forse per espostare il cadavere al trove,
ma sarebbe stato interrotto dall'arrivo di Paola Cesaroni
e delle persone che erano con lei.
La moglie di Vanacore, Giuseppa De Luca,
interrogata all'11 agosto,
dice però di aver visto qualcun altro,
quel giorno in Via Poma.
Nell'orario in cui mio marito era assente,
nel periodo in cui era andato dal ferramenta
o in quello successivo in cui avevano affiato i fiori,
anzi, senza altro, quando era dal ferramenta,
quindi alle 18 circa,
ricordo di aver visto un uomo abbastanza alto,
forse 1,80 m,
con un cappello a visiera che procedeva con la testa abbassata.
Aveva un sacchetto stretto nella mano sinistra.
Era a quasi dieci metri di distanza
quando mi sono accorta che stava uscendo,
l'ho visto solo di spalle.
Il 24 agosto viene effettuato un incidente probatorio
per stabilire di che tipo sia il sangue
rinvenuto sui pantaloni di vanacore
e se possa partenere a Simonetta Cesaroni.
L'incidente probatorio è un istituto processuale
previsto dall'articolo 392 del Codice di Procedura Penale.
Serve ad acquisire una prova
nelle fasi delle indagini preliminari
e non come dovrebbe avvenire durante il processo.
La prova, infatti,
si dovrebbe formare nel corso del dibattimento,
ma ci sono casi, appunto,
in cui questo deve avvenire prima.
Succede quando si vuole acquisire una testimonianza,
temendo poi che il testimone sia inderreperibile
o sia indotto a cambiare versione.
Oppure quando si deve effettuare un test scientifico
su un materiale che può essere soggetto a modificazioni,
cioè si può deteriorare nel tempo.
La prova acquisita durante l'incidente probatorio
viene cristallizzata, e questo è il termine usato.
Resta, cioè così, congelata fino a processo.
Tra i giorni dopo, il 27 agosto,
cioè 20 giorni dopo l'omicidio,
vengono individuate macchie di sangue
sul vetro protettivo del pulsante
di accensione generale dell'ascensore
e all'interno della cabina dell'ascensore della Scala B.
A vedere a segnalare le macchie,
è Mirko Vanacore, il figlio più piccolo del portiere.
Nessuno le aveva viste prima,
nessuno le aveva ripertate.
Quelle tracce vengono poi definite dalla procura di Roma
di estrema importanza.
Alcune appartengono al gruppo zero,
con una tipizzazione genetica di qα1.4.4.
Che cosa significa e che cosa si poteva ottenere
nel 1990 con il test del DNA?
Lo stiega Immanuale Magnetti,
giornalista del POS,
e autore con Beatrice Mautino,
del podcast Ci vuole una scienza.
Tra la fine degli anni 80 e i primi anni 90,
la scienza forense stava attraversando grandi cambiamenti,
proprio grazie alle nuove scoperte sul DNA
e alla possibilità di utilizzare
il materiale genetico nell'indagini.
La storia dei test del DNA,
per come l'intendiamo oggi,
è del resto relativamente recente.
Nel 1985 fu perfezionata
una tecnica basata sulla scoperta
che alcune aree del genoma,
cioè tutto il materiale genetico
che troviamo all'interno di una cellula,
contengono segmenti di DNA,
che si ripetono più volte
e in un numero variabile da persona a persona.
Sono i cosiddetti polimorfismi.
Con un'analisi di laboratorio
si può sfruttare questa caratteristica
per confrontare varie molecole di DNA,
distinguendole in base alla loro lunghezza,
più segmenti ripetuti ci sono,
più sono lunghe.
Una successiva svolta molto importante
arrivò con la possibilità di amplificare,
cioè moltiplicare, frammenti di DNA
in modo da ottenere anche da tracce molto piccole,
quantità di materiale genetico sufficienti
per compiere analisi.
E' la tecnica PCR,
reazione a catena della polimerasi,
di cui si era parlato molto
nei primi mesi dell'emergenza sanitaria
nel 2020.
La PCR portò a perfezionare
un nuovo sistema chiamato
HLA-DQ-Alpha
dal nome di un gene che si presenta
con diverse variazioni tra la popolazione,
in sostanza non è uguale per tutti.
La sigla
DQ-Alpha 1.4.4
indica una particolare
variante del gene
emersa dall'analisi della goccia di sangue
che può comunque essere comune
a più persone.
In i primi anni 90 questo tipo di test
era considerato promettente
sebbene presentasse alti livelli
di incertezza che si sarebbero ridotti
solo in seguito grazie allo sviluppo
di tecniche via via più affidabili
che utilizziamo ancora oggi.
Le tracce di sangue del gruppo 0
sono inequivocabilmente disimonelle
tra cesaroni.
Altre tracce, in un superalluogo successivo,
vengono trovate nel sottoscala
vicino all'ascensore.
Alcune sono indefinibili,
altre sono di gruppo B.
Il giorno dopo,
mentre sono ripresi sopra al luogo
in tutto l'edificio, arrivano i risultati
sul sangue trovato sui pantaloni
di pietrino vanacore
e bisogna ricominciare tutto da capo.
Avete ascoltato la prima parte
della nuova storia di Indagini
sul delitto di Via Poma
del 7 agosto 1990?
Trovate già la seconda parte
sull'app del post
e su tutte le principali piattaforme
di Podcast.
Indagini è un podcast del post
scritto e raccontato
da Stefano Nazzi.
Sottotitoli a cura di QTSS
Machine-generated transcript that may contain inaccuracies.
Il 7 agosto 1990 in via Poma, a Roma, nel quartiere Prati, una ragazza di vent’anni venne assassinata con 29 colpi di quello che il medico legale definì «un mezzo da punta e taglio con peculiarità bitagliente ma non dotata di particolare azione recidente e penetrata segnatamente in virtù della sua estremità aguzza». Il medico disse che poteva trattarsi di un tagliacarte ma sull’arma non c’è mai stata alcuna certezza.
La ragazza si chiamava Simonetta Cesaroni. Quel giorno era in un ufficio dell’AIAG, Associazione italiana alberghi della gioventù. Stava lavorando al computer: doveva inserire alcuni dati contabili.
Per il suo omicidio venne indagato e arrestato il portiere dello stabile in cui si trovava l’ufficio, Pietrino Vanacore. Fu rilasciato qualche giorno dopo: contro di lui non c’era nessuna prova concreta. Il suo nome però tornò più volte, negli anni, durante le indagini. Due anni dopo a essere indagato fu il nipote di un inquilino della palazzina in cui era avvenuto l’omicidio. Anche lui fu scagionato. Vent’anni più tardi a essere processato fu il ragazzo che, all’epoca era fidanzato con Simonetta Cesaroni: Raniero Busco. Venne condannato in primo grado e poi assolto in appello e in cassazione.
Il colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni non è mai stato individuato e il caso di via Poma è il cold case più famoso della storia italiana.
Nello shop del Post è disponibile la borsa di Indagini.
Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.