Il Mondo: Perché in tutto il mondo sempre più persone lasciano il lavoro. Un conflitto congelato nel Caucaso meridionale.

Internazionale Internazionale 6/5/23 - Episode Page - 23m - PDF Transcript

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Dalla redazione di Internazionale io sono Giulia Zoli e questo è il mondo, il podcast

quotidiano di Internazionale.

Oggi vi parleremo di rifiuto del lavoro e di un conflitto tra Armenia e Azerbaijan

e poi di come comunicano le API e di una serie TV.

È l'unedì 5 giugno 2023.

Mi piace mettere un piccolo in gente's face, ma è stato a un punto in cui mi sento

che avevo lasciato un po' troppo di me stesso.

E per certe cose in cui mi dico che questo non è in mia descrizione, e ora mi sono pagato

meno.

È una rivoluzione, finalmente abbiamo capito quanto valiamo, dice a la CNN, Ifoma Isimaco,

una donna di 23 anni che lavorava nel settore al Perghiero, che nel 2022 ha lasciato il

lavoro come hanno fatto almeno altri 50 milioni di lavoratori negli Stati Uniti.

È il fenomeno delle grandi dimissioni.

Con la fine della pandemia, milioni di persone si sono licenziate, non solo negli Stati Uniti

e in Italia e non solo nel mondo occidentale.

Una decisione difficile che spesso appare obbligata e che segna un cambiamento profondo nel modo

di concepire il lavoro.

Ne parliamo con Francesca Cohen, sociologa alla Scuola Universitaria Professionale della

Svizzera Italiana, che ha appena pubblicato per in Audi il saggio le grandi dimissioni,

il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita.

Le grandi dimissioni sono il sintomo di una disaffezione al lavoro che è diventata manifesta

dopo la pandemia e che hanno portato milioni di persone a dimettersi dal proprio lavoro.

Negli Stati Uniti abbiamo visto nel 2021 circa 48 milioni di persone lasciare il lavoro,

52 milioni nel 2022 e nel 2023.

Una ricerca pubblicata di recente dice che circa il 96% delle persone, stiamo parlando

di un sondaggio, ha detto di voler lasciare e poi abbiamo visto in Cina per esempio movimenti

come il Tang Ping o il Bailand, quindi movimenti di dissenso rispetto all'attuale organizzazione

del lavoro.

Abbiamo visto processi simili in India, in diversi paesi appunto nel mondo, incluso

in modo un pochino diverso l'Italia.

A fare esplodere questo fenomeno, come hai detto, è stata la pandemia.

Cosa si è spezzato?

Cosa è successo durante la pandemia a tanti lavoratori e lavoratrici?

Tu parli fin dalla prima pagina del tuo libro di una rottura epocale.

La pandemia ha rivelato un malessere che era già presente negli anni precedenti,

però l'ha reso manifesto.

Le ragioni sono multiple e dipende anche dal settore e dal tipo di lavoro che andiamo a guardare.

Per esempio per molti lavoratori e lavoratrici essenziali il lavoro è stato un processo profondamente

stancante, pensiamo solo al caso della sanità oppure anche al personale che lavorava nei

supermercati, mentre il lavoro inessenziale, le lavoratrici e lavoratori inessenziali si

sono chiesti le ragioni, per cui lavoriamo con tanta frenesia, tanta intensità.

Sono usciti alcuni libri che ci aiutano a riflettere su questo, uno è di Jonathan

Malese, che è il titolo alla fine del Burnout e che dice che la pandemia ha aperto una

briccia nell'immaginario collettivo in base al quale effettivamente si può vivere in modo

diverso, si può lavorare in modo diverso ed è come se questa riflessione avesse preso

piede in modo simultaneo e capillare in voce diversi del mondo.

Nel tuo libro unisci in modo molto efficace l'analisi macroeconomica e dei modelli di

lavoro con la voce delle persone.

Ci sono molte pagine di testimonianze dirette di lavoratori e lavoratrici che hanno lasciato

il lavoro.

Chi sono queste persone che lasciano il lavoro?

Anzi te lo voglio chiedere così, chi sono queste persone che possono permettersi di lasciare

il lavoro?

Una delle narrazioni dominanti in questo processo nell'analisi di questo fenomeno delle grandi

dimissioni è stata proprio l'idea che le persone che lasciano il lavoro sono quelle

che più se lo possono permettere dobbiamo adottare un'inversione logica nel guardare

questo processo perché in realtà chi si dimette, chi si disaffeziona, chi vuole lasciare.

Tutto spesso sono lavoratrici e lavoratori poveri che sentono per lungo tempo di non ricevere

una contropartita adeguata per il loro lavoro e tuttavia anche di avere dei costi molto

alti.

Pensiamo allo stesso caso della sanità quante persone si sono ammalate, quante persone hanno

avuto esaurimenti o comunque hanno avuto un impatto molto forte della pandemia sulla

propria salute.

In tutti questi casi si lascia perché la contropartita non è sufficiente, si lascia

perché non ne vale più la pena o si lascia semplicemente perché si cerca un modo diverso

o un modo di fatto per sopravvivere.

Colpisce che questo fenomeno delle grandi dimissioni abbia riguardato anche un paese come il nostro

con un così alto tasso di disoccupazione, molti hanno puntato il dito contro il reddito

di cittadinanza.

Di solito si dice che il reddito di cittadinanza è un disincentivo al lavoro, in realtà quello

che le grandi dimissioni mostrano è che il lavoro povero è un disincentivo al lavoro.

L'Italia è un caso anomalo per l'appunto in cui il numero di persone disoccupate e

scoraggiate circa 5 milioni di persone fa sì che quando qualcuno lascia un lavoro

sia difficile trovarne un altro.

Questo è opposto rispetto a quanto è accaduto negli ultimi anni negli Stati Uniti ad esempio

e in tutti questi casi significa che il malessere è tale che ci si assume il rischio di lasciare

perché appunto si ha troppo poco in cambio per convincere le persone a lavorare, a investire

nel lavoro.

Bisogna dare una contropartita non solo monetaria ma anzi tutto economica, sufficiente che nulla

che vedere con il reddito di cittadinanza.

Di fronte a questo malessere i lavoratori non si organizzano più, le grandi dimissioni possono

essere considerate una forma di lotta.

Robert Rake, l'ex ministro del lavoro negli Stati Uniti durante l'amministrazione Clinton

l'ha definito uno sciopero generale non dichiarato, quindi una forma di sciopero, di

astensione dal lavoro che tuttavia viene in modo individuale e capillare, riflettendo

e ci ho parlato di doppio fallimento, pertanto da un lato il fallimento dei sindacati nel

tentativo di organizzare il lavoro e dall'altro però il fallimento aziendale nel tentativo

di disciplinare il lavoro, al punto che pur di sopravvivere o pur di stare meglio le

persone se ne vanno, però in molti casi abbiamo visto che le grandi dimissioni hanno innescato

un processo di sciopero, scioperi di massa che abbiamo visto negli Stati Uniti nel Regno

Unito, persino in Francia, per cui è come se questo sciopero generale non dichiarato

alla fine fosse anche una dichiarazione comune che avviene in modo simultaneo e che diventa

quasi o può generare, poi innescare, nuove forme di organizzazione di mobilitazione.

Secondo te dove dovremmo guardare oggi per ispirarci, per trovare un modello di lavoro

che possa funzionare? Dove si sta svolgendo questo dibattito?

Dunque dal mondo imprenditoriale va detto che ci sono alcuni segnali in contro tendenza

che secondo me sono incoraggianti e che dovrebbero fare scuola, penso ad esempio a questo imprenditore

di Svizzero di Friburgo Heinz Egger che di fronte alla difficoltà di reperire personale

in questo caso nel commercio ha deciso apparità di salario di ridurre i giorni di lavoro

portandoli da 5 a 4. Le grandi dimissioni sono l'esito di condizioni di lavoro in adeguate

e quindi non è con strumenti coercitivi come ad esempio l'abolizione del reddito di cittadinanza

che si può andare a cambiare la situazione bisogna per appunto ascoltare quali sono le

richieste del lavoro e inventarsi dei modi dal salario minimo legale una settimana curta

per implementarli e mettere il lavoro al passo con il terzo millennio.

Grazie a Francesca Coyne. Grazie a voi.

La notizia di scienza della settimana raccontata da Elena Boille, vice-direttrice di Internazionale.

Le api hanno un linguaggio molto sofisticato che nel tempo abbiamo imparato a conoscere

piuttosto bene. Ronzando e vibrando, inclinandosi e volteggiando nello spazio e muovendo l'addome,

l'apis mellifera, cioè l'ape europea che conosciamo, sa comunicare con precisione alle

compagne che direzione prendere per raggiungere una fonte di cibo e quanta strada a fare. Ma

nell'articolo che abbiamo ripreso dalla rivista statunitense Noima e pubblicato nell'ultimo

numero di Internazionale si racconta che ora, grazie alla tecnologia e all'intelligenza artificiale,

riusciamo a capire ancora meglio cosa si dicono, con un livello di dettaglio senza precedenti.

Possiamo distinguere ogni singolo individuo di noschame, seguire i suoi spostamenti e registrare

ogni vibrazione. In un esperimento analizzando 3 milioni di immagini scattate in tre giorni è

stato possibile tracciare le traiettorie di ogni api dell'alveare con un tasso di errore di

appena il 2% e i ricercatori ora stanno lavorando a un robot capace di comunicare con le api europee

nella loro lingua, una sorta di Google Translate per parlare con le api. La danza del robot si è

già rivelata abbastanza ben fatta da guidare le api verso un punto stabilito. Speriamo solo che

questa nuova possibilità di comunicazione sia usata per proteggerle e non per trasformarle in

dispositivi militari, use e getta, come sta già pensando di fare il pentagono.

È extremamente importante, è per questo che siamo engagati in order a supportare

tutti i positivi effetti, in order a supportare anche le mesure di sfida di confidenza, e abbiamo

fatto oggi molto di progressi, significa che abbiamo deciso insieme di lanciare un processo

per preparare una possibilità di tritia e adattare tutti i necessari elementi per una tritia.

Il 14 maggio il Presidente del Consiglio europeo Charmichel ha ricevuto a

Bruxelles il Presidente dell'Azerbaijan Ila Maliev e il Primo Ministro dell'Armenia Nikol Pashinyan

per avviare dei collochi di pace, come spiega lui stesso in questa conferenza stampa.

Pochi giorni prima ci erano stati degli scontri al confine tra gli eserciti dei due paesi,

che da decenni sono impegnati in un conflitto per il Nagorno Karabakh, una piccola regione

del cauca someridionale. Quella del Nagorno Karabakh è una delle tante guerre in corso

in questo momento nel mondo, ed è anche una delle guerre che internazionale ha deciso di

raccontare nel primo volume della collana parole chiave, nata dalla collaborazione con la casa

di Trice Bur Rizzoli. Ne parliamo con Andrea Pipino, editor di Europa di Internazionale.

Il volume è nel Libre del 30 maggio, come hai detto curato dagli editori internazionale,

racconta dieci conflitti in regioni diverse del mondo, attraverso analisi e reportaggi

di giornalisti e di esperti stranieri, ed è corredato da grafici e cartine. Abbiamo

scelto per il volume le guerre che ci sembravano più importanti per capire il presente, ma abbiamo

anche tenuto conto di altri fattori, come il numero delle vittime per esempio, e la durata

stessa dei conflitti. E c'è anche sembrato importante parlare di alcune guerre che oggi

sono dimenticate dai grandi mezzi di informazione, tra i conflitti che abbiamo selezionato,

cioè come hai detto la guerra del Nagorno Karabakh, che forse è il conflitto con le eradici più

profonde e più complicate da districare tra tutti quelli che sono stati innescati dal crollo

dell'Unione Sovietica e che sono ancora irrisolti, cioè quelli che chiamiamo conflitti congelati,

in pratica le guerre che sono svolte, in parte si svolgono ancora in Transnistria, Abkhazia

e Ossetia del Sud, oltre ovviamente che in Nagorno Karabakh. Si tratta essenzialmente

di uno scontro per il controllo di una regione a maggioranza armena che però si trova nel territorio

della Azerbaijan. E a radici profonde, come dicevamo, perché i problemi di convivenza tra gli armeni

e gli azeri non sono una cosa recente. Le due comunità hanno vissuto accanto per secoli nel

caucaso del sud alternando periodi di convivenza pacifica e anche fruttuosa, con momenti di attriti

e di violenze molto gravi. Per farsi un'idea della dimensione storica tra questioni c'è un libro

bellissimo che è uscito da poco, non è un libro di storia, ma è un memoir, si chiama i miei giorni

nel caucaso ed è stato scritto da Abhanin che è uno pseudonimo ed è in realtà una scrittrice

di nascita a zera, ma di espressione francese che racconta per l'appunto i rapporti tra gli azeri

e gli armeni nei giorni molto complicati dell'inizio del 900, tra pogrom, violenze, rivoluzioni

e grandi trasformazioni politiche. Ecco, in qualche modo le radici dell'attuale conflitto

in Nagorno Karabakh sono proprio in quegli anni nella guerra armena a zera, per esempio,

che scoppia verso la fine della Prima Guerra Mondiale, sullo sfondo della dissoluzione

dell'Impero Ottomano e porta alla nascita delle Republie Sovietiche della Zerba e Gian e dell'Armenia

e alla sovietizzazione di tutto il caucaso meridionale. Sono questi anni di massacri terribili,

per esempio il pogrom antiarmeno di Shusha, che è proprio il Nagorno Karabakh nel 1920,

è in questa fase che la regione del Nagorno Karabakh, abitata in starrande maggioranza

da armeni cristiani, viene incorporata nella Repubblica Sovietica della Zerba e Gian,

che invece è maggioranza musulmana, scita, seppure con una larga minoranza sonnita.

La regione viene incorporata con uno statuto di autonomia particolare e prende il nome

di Oblast del Nagorno Karabakh, poi diventerà appunto la zona protagonista della guerra degli

anni 90. I vari capitoli di questo volume, che corrispondono a diverse guerre in corso,

si aprono tutti con una cronologia. Quella della guerra in Nagorno Karabakh comincia nel 1991.

La guerra vera e propria in Nagorno Karabakh scoppia alla fine del 1991, ma arriva al culmine

di tensioni che riportano di attualità la questione dello statuto appunto della regione

e che a quel punto sono già durate diversi anni. In particolare, durante il periodo

della Perestroika, intorno al 1988, nello blast del Karabakh prende piede un movimento

che chiede l'unificazione della regione con l'Armenia. C'è anche in questa fase un voto

formale del Soviet locale che chiede appunto l'appcorpamento del Nagorno Karabakh a Yerevan.

È qui che cominciano gli scontri tra le due comunità. In particolare, il primo episodio

sono le violenze di Askeran nel febbraio del 1998, le quali poi sono seguite da un pogrom

famigerato, quello di Sunga It, una cittadina poco al nord di Baku, in Azzerba, in cui sono

uccise decine e decine di Armeni. In questa fase gli scontri diventano praticamente quotidiani

e hanno il risultato di spingere molti Armeni che vivono in Azzerba e Azzerbi d'Armenia a fare

di torno nel proprio Paese d'Origine. A queste tensioni seguono diversi tentativi di mediazione

che però sono tutti infruttuosi e poi seguono il crollo dell'Unione Sovietica con l'indipendenza

di Armenia e Azzerba e Gian e qui cominciano la guerra vera e propria. Le cose vanno più o

meno così. Il 2 settembre del 1991 la regione del Nagorno-Karabakh annuncia la secessione

dell'Azzerba e Gian e proclama la nascita della Repubblica dell'Arzak, non riconosciuta dalla

comunità internazionale e governata dalla comunità etnica-Armena locale. Il 26 novembre l'Azzerba e

Gian ha nulla regime di autonomia che aveva la regione e a questo punto sono solo le armi a parlare.

Qual è stato il bilancio di questo conflitto e come si è concluso?

Allora la guerra è stata brutale e molto violenta, ha fatto più di 30.000 morti e centinaia di

migliaia di profugi. Si è conclusa il 5 maggio del 1994 con un accordo di cessate il fuoco

siglato a Bishkek in Kyrgyzstan, sempre nello spazio ex-Sovietico. La vittoria è nettamente

degli Armeni che prendono il controllo del Nagorno-Karabakh e delle zone circostanti,

cioè quelle tra la regione vera e propria il confine con l'Armenia, dove in realtà vivevano

soprattutto gli Azzeri, i quali sono costretti a rifoggiarsi in Azzerba e Gian, centinaia di

migliaia di profugi. I problemi però non sono risolti del tutto, lunga la linea di contatto,

per 10 anni ci sono di tanto in tanto scaramucce e violenze e soprattutto il vero problema è che

non si riesce a negoziare in una soluzione definitiva. Il conflitto a questo punto riesplode nel 2016

ad aprile con degli scontri che fanno centinaia di morti e poi nuovamente nel 2020 con una nuova

guerra che questa volta rivoluziona nettamente gli equilibri sul campo, anche grazie alla superiorità

militare tecnologica e soprattutto ai droni forniti dalla Turchia, che è il suo principale

sponsor politico e militare, è bene ricordarlo. L'Azzerba è già riconquista i territori circostanti,

il Nagorno-Karabakh, quelli che aveva perso nel 1994, e conquista anche diverse aree della Repubblica

dell'Arzakh, propriomente detta. Stavolta i profugi sono soprattutto gli Armeni. La rossia,

che è considerata la potenza protettrice degli Armeni, sta sostanzialmente a guardare e si invita a

favorire la firma di un cessato il fuoco e a mandare forze di pace per garantire un corridoio tra

quello che resta della Repubblica dell'Arzakh e l'Armenia propriomente detta.

Però ci sono dei negoziati ancora in corso come abbiamo detto all'inizio, quindi la questione

non è ancora risolta? No, la questione non è risolta e non sarà facile da risolvere. Nel

ultimi due anni ci sono stati nuovi sconti e diversi problemi legati appunto alla gestione del

corridoio di Lashin, che è quello che dovrebbe garantire il collegamento tra l'Arzakh e l'Armenia,

finché con la russa impegnata nella sua guerra di aggressione contro l'Ukraine, nel settembre del

22 l'Azerbejan ne ha nuovamente approfittato per sferrare altri attacchi contro gli Armeni, colpendo

posizioni perfino all'interno della Repubblica dell'Armenia. Anche stavolta è stato negoziato

un cessato il fuoco, ma nei medi successivi si sono stati ancora scontri a base in intensità,

quelli che qui ho fatto riferimento all'inizio, che continuano anche in queste ore. La questione

non è ancora risolta e in effetti non sarà facile arrivare a una soluzione definitiva.

Negli ultimi anni tuttavia gli equilibri militari, come dicevamo, tra i belligeranti si sono capovolti

e l'Azerbejan ha acquisito quella superiorità tecnologica e strategica che invece precedentemente

era degli Armeni. Inoltre c'è il fatto che Mosca sembra sempre meno propensa a mobilitarsi per

difendere il suo primo alleato nel Kawaso per gli Armeni e a farsi coinvolgere in conflitti

nell'area. D'altra parte però è anche vero che ogni tentativo di trovare un compromesso e negoziare

una soluzione al conflitto che è stato fatto dal presidente almeno Pashinyan, che ricordiamolo

arrivato al potere nel 2018 dopo un'ondata di protesta di piazza contro il vecchio regime.

Dicevamo ogni suo tentativo è stato accolto da forti malumori nell'opinione pubblica più

un nazionalista e dalla resistenza della vecchia classe dirigente e militare che è figlia proprio

delle vittorie militari degli anni 90. Sul altro fronte invece Baco sembra sempre più aggressive

e consapevole di avere oggi un netto vantaggio militare. Non sembrano esserci molti elementi

per mettere fine a questa contrapposizione storica? Questo quadro è difficile immaginare una svolta

in tempi brevi. Tuttavia, nelle ultime settimane qualcosa, come dicevi, sembra essersi mosso.

Il leader armeno ha detto di essere pronto a riconoscere la sovranità a zera su una

torna carabac in cambio di garanzie sulla sicurezza e la tutela dei diritti della comunità degli

armeni. Tra il 15 e il 25 maggio Pashinyan e il presidente a zero Ilham Aliyev si sono incontrati

prima a Bruxelles con il presidente del Consiglio europeo Shalmichel e poi a Mosca alla presenza di

Putin. Inoltre, Pashinyan ha fatto sapere che l'Armenia sta meditando di lasciare la CSTO,

che è l'alleanza militare a guida russa tra alcuni stati dell'ex Unione Sovietica.

Insomma, il punto è che nella regione c'è un fermento politico particolare che potrebbe

portare a nuovi assetti politici. Non è detto che sarà così. Se sarà così,

questi assetti politici potrebbero anche avere delle conseguenze positive

su una soluzione del conflitto a zero, Armena. Grazie ad Andrea Pipino. Grazie a voi.

Piero Zarto, editor di cultura d'internazionale, consiglia una serie TV.

Dopo quattro stagioni si è conclusa Sack Session, la serie HBO scritta dal britannico Jesse

Armstrong. Chi non l'ha vista, potrebbe chiedersi perché farlo, visto che il plot sembra poco rigirale.

Gli intrighi di potere tra padri e figli, che siano per il trono dell'animarca, o come in questo

caso per il controllo dell'impero mediatico, sono una cosa antica come il mito greco.

Ma Sack Session in realtà è molto attuale. Il mondo dei ricchi e dei potenti è descritto

in modo molto dettagliato. Addirittura, per la precisione con cui sono descritti situazioni,

ambientazioni, interazioni di questi potenti della terra, si è parlato addirittura di talpe

all'interno della cerchia del magnate australiano Rupert Mardock. Il cast è perfetto, i personaggi

sono origenali e coerenti, le dinamiche, anche quelle psicologiche tra di loro, sono descitte con

finezza e sono anche molto vere. Il ritmo è sempre serrato, gli alloghi molto densi, quindi il livello

di attenzione non si può abbassare mai. Il fatto che Sack Session richieda impegno allo spettatore,

per me è un motivo di merito. Poi non si può negare la componente voyeristica,

che ultimamente sembra molto di moda, cioè vedere dei privilegiati soffrire al naspare,

tribolare, insomma è in qualche modo appagante, in più siamo sempre in bilico tra comedia tragedia,

quindi Sack Session è anche estremamente divertente. Le quattro stagioni Sack Session sono

disponibili su Sky e su Now. Dalla redazione di Internazionale per oggi è tutto. Scriveteci

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È il fenomeno della Great resignation, le grandi dimissioni: con la fine della pandemia milioni di persone si sono licenziate. Quella del Nagorno Karabakh è una delle guerre che Internazionale ha deciso di raccontare nel primo volume della collana ParoleChiave, nata dalla collaborazione con la casa editrice Bur Rizzoli.

Francesca Coin, sociologa alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana
Andrea Pipino, editor di Europa di Internazionale

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Consulenza editoriale di Chiara Nielsen.
Produzione di Claudio Balboni.
Musiche di Tommaso Colliva e Raffaele Scogna.
Direzione creativa di Jonathan Zenti.