Indagini: Este, Broni, Bascapè, 1995-1999 - Prima Parte

Il Post Il Post 8/1/23 - Episode Page - 46m - PDF Transcript

C'è un momento esatto, un gesto preciso e poche parole, che portarono i magistrati

inquirenti e poi giornali a considerare Milena Cuallini una serie al killer, una assassina

seriale. Era il 29 novembre 1999. Lei era seduta in una stanza della sezione femminile del

carcere di Vigevano. Accanto aveva la sua avvocata, Lycia Sardo, di fronte il magistrato inquirente.

Milena Cuallini era una donna di 42 anni minuta e i capelli scuri e gli occhi verdi portava grandi

occhiali. In quel momento aveva la testa leggermente reclinata verso il basso, anche lo sguardo era

rivolto verso il basso. Poi alzò la testa e lo sguardo e disse, dottore, ho un'altra storia da

raccontare. Milena Cuallini nelle settimane precedenti aveva già raccontato molto, quel giorno raccontò

altro. Fu allora che sui giornali quella donna divenne l'angelo vendicatore oppure la vedo

vanera del Pavese o, peggio ancora, la casalinga serial killer. Il termine serial killer, assassino

seriale, fu utilizzato per la prima volta negli Stati Uniti da due investigatori dell'FBI alla fine

degli anni 70. Robert Resler, che è morto, e John Edward Douglas, che oggi ha 78 anni. Intervistarono

36 assassini americani tre più famosi, tra quelli considerati più crudeli, autore di crimini

pesanti da studiare e motivamente difficili da raccontare. Elaborarono, al termine della loro

inchiesta, assieme alla professoressa Ann Wolbert Borges, oggi 86 anni, consulente medico Forenze,

il concetto di serialità, dividendo i serial killer inorganizzati e disorganizzati. I primi per i

ricercatori sono estremamente lucidi, hanno un consente intellettivo alto, sono metodici,

con una vita sociale e affettiva ordinata, fatta di routine e precisione. Spesso uccidono la

vitima in un posto per poi spostarla in un altro, si preoccupano di non lasciare tracce e le

cancellano, studiano attentamente la scena del crimine. Disorganizzati sono solitari,

hanno spesso disturbi mentali un basso livello culturale e un basso consente intellettivo. Usano

armi di fortuna, a differenza degli organizzati che portano con sé l'arma, e spesso lasciano

tracce evidenti. Dalle ricecche di Ressler, Douglas e Borges emerge che per alcuni omicidi,

quegli appunto degli assassini seriali, non conta il movente. Anzi il movente,

nel senso stretto del termine, non c'è. Conta la struttura psicologica di chi commette

l'omicidio, le sue tendenze, le sue pulsioni formate segnali anni all'interno del contesto

sociale e familiare. Su lavoro dei due agenti e della ricercatrice è basata la serie Mind

Hunter, scritta in base alla biografia di Douglas. I tre conclusero che era da considerare

assassino seriale che uccideva tre o più persone. Gli omicidi di un serie killer,

secondo le loro conclusioni, erano intervallati da periodi di tempo che definirono raffreddamenti

emozionali. Gli assassini seriali erano secondo loro ben distinti da coloro che invece vengono

definiti spree killer, cioè assassini che uccidono più persone in rapida successione,

in un solo episodio continuato di violenza. In base ad altri studi più recenti, è definito

serie killer anche chi compie due o più umicidi, a distanza di tempo l'uno dall'altro.

C'è un elenco che allegge l'un effetto strano, sembra una sequenza di titoli di film. Il

cherubino nero, il killer delle carte, il killer dei treni, il medico della morte, l'infermiere

di satana, il lupo dell'agro romano, il biondino della spider rossa, il pazzo di limbiate,

rambo e sanguinario di aversa. Poi ci sono i mostri, il mosso di Foligno, il mosso di

Terrazzo, il mosso di Udine, il mosso di Firenze, il mosso di Milano, il mosso di Norma, il

mosso di Merano, una lunga serie di mostri. E poi ci sono le donne, la saponificatrice

di Correggio, la Vidova Nera, l'Angelo della morte, la Belva di Via Sangregorio, la Belva

di Varcelli, la Mantide. Si potrebbe andare avanti molto a lungo, con un elenco di soprannomi

che si ripetono. Uomini e donne che non hanno più nomi e cognomi, come se non fossero reali,

come fossero creazioni della fantasia, protagonisti di un romanzo nero o di un film. E invece sono

veri, concreti, sono esistiti e esistono. Sono donne uomini che hanno commesso crimini, che

hanno ucciso. Cancellando i loro nomi, sostituendoli con luoghi comuni e frasi fatte che si ripetono

con sempre minore fantasia, si rischia di oscurare il racconto di ciò che hanno commesso,

di romanzarlo, di annebbiare la loro storia, la storia delle vittime che diventano solo

non protagonisti, quasi in secondo piano. Li chiamiamo così per togliere loro l'umanità,

illudendoci di porli al di fuori del mondo. Disse Ted Bundy, forse più celebra assassino

seriale americano. Chiamatemi come volete, ma noi siamo i vostri figli, siamo i vostri

mariti. Non si è mai scoperto esattamente quante persone, quante donne, abbia ucciso

Ted Bundy. Trenta furono quelle accertate, ma il sospetto è che ne abbia uccise molte

di più. Bundy venne descritto come un uomo brillante, elegante. Era laureato in legge

psicologia, era molto presente nelle attività della sua comunità. Fu sottoposto a test

psicologici, a numerose perizie. Era perfettamente capace di intendere di volere, non assumiva

sostanze stupefacenti, non beveva, non aveva malattie psichiatriche, gli piaceva uccider.

Dopo la lettura della sentenza nel 1980, il giudice, Edward Coward, li disse. Si prenda

a cura di sé stesso, figliolo. Gli ero dico su serio, si prenda a cura di sé stesso.

È una tragedia vedere un tale spreco di umanità come ho visto in questo tribunale.

Lei è un uomo giovane e brillante, avrebbe potuto essere un brillante avvocato. Non ho

nessun malanimo verso di lei, volevo che lo sapesse, si prenda a cura di sé stesso.

Ted Bundy venne ucciso sulla sedia elettrica il 24 gennaio 1989.

Forse il giudice Edward Coward avrebbe definito spreco d'umanità anche la storia di Milena

Cuaglini, la donna che aveva detto o un'altra storia da raccontare.

I soprannomi che le diedero sono quasi grotteschi, inutili, fuorvianti, per una storia che è

complessa, fatta di dolore dato, ma anche ricevuto. Questa è la storia di una donna che,

secondo le definizioni criminologiche, rientra appunto nella categoria dei serial killers.

Me anche la storia di una persona che si convince di aver fatto bene uccider. Ed è una storia

di come nei confronti di certi criminali, a volte una parte di noi, prova quasi una

sorta di comprensione. Ci diciamo sì, ma in quella situazione la vita ce l'ha trascinata,

la vita con lei o con lui, non è stata generosa, non è stata una buona vita. Come se questo

giustificasse. E la storia di come un omicidio, senza una confesione, non sarebbe mai stato

scoperto. Di una dipendenza grave dall'alcol. Di dubbi che non sono mai stati sciolti tra

capacità e incapacità, per lo meno parziale, di intendere di volere. Tra delitti premeditati,

preteri intenzionali o eccesso colposo di legittima difesa. E' una storia senza nessuna via d'uscita.

E la storia di cosiddetti mostri serial killer che in realtà, proprio come di sette bandi,

sono mariti e figli, mogli e figlie, fratelli, sorelle, vicini di casa.

Roberto Benigni disse con una battuta. Anche il Mosso di Firenze l'avrà detto buongiorno

a qualcuno, qualche volta. E' una battuta appunto. Ma racconta anche una realtà fatta

di donne uomini che fanno male ad altre donne ad altri uomini. È quello che accadde a Milena

Cuaglini, è quello che fece. Milena Cuaglini.

Io mi chiamo Stefano Nazzi, faccio il giornalista da tanti anni e nel corso della mia carriera mi

sono occupato di tante storie come questa, quelle che nel tempo vi sono diventate familiari e altre

che potreste non avere mai sentito nominare. Storia di Kronach, di Kronach a nera, di Kronach a

giudiziaria. Il podcast che state ascoltando sentitola in indagini ed è prodotto dal post.

Vi racconterò ogni mese, una volta al mese, una di queste storie. Tentando dimostrare non

tanto il fatto di Kronach in sé, il delitto in sé, ben sì tutto quello che è successo dopo,

il modo in cui si è cercato di ricostruire la verità. Le indagini giudiziarie e i processi

con le loro iniziative, le loro intuizioni e loro errore. Il modo in cui le indagini

hanno influenziato la reazione dei media e della società e il modo in cui media e la società hanno

influenziato le indagini.

Este, in provincia di Padova, 27 ottobre 1995. Sono più o meno le 1830 quando a servizio di pronto

intervento, all'Ore 118 non esisteva, ogni provincia aveva il suo numero, arriva una telefonata.

Una donna dice di essere arrivata nell'appartamento dove solitamente fa lavori domestici,

invieschia vini, ed di aver trovato il proprietario di casa a terra con molto sangue sulla testa.

C'è tanto sangue anche sui muri, dice.

Arriva l'ambulanza, l'uomo è vivo, lo portano d'urgenza all'ospedale di Padova.

Poi arrivano i carabinieri. La donna dice che le chiavi di casa erano nella toppa e che erano un paio

di giorni che non entrava in quell'appartamento. C'e andava, ma non regolarmente, a preparare

la cena all'anziano. L'ultima volta era stata da lui il 25 ottobre.

L'uomo si chiama Giusto dalla Pozza, a 83 anni.

I carabinieri vedono che in casa c'è molto chaos, una lampada comodino per terra,

per avvetteri dappertutto. La donna racconta che già il 25 ottobre aveva trovato il signor

dalla Pozza a terra confusa. Lui li aveva detto che non stavano stati due uomini a cui aveva

prestato dei soldi da cui pretendeva la restituzione, che loro, allora, erano andati a casa sua

non per idarli soldi, ma per minacciarlo e picchiarlo.

Giusto dalla Pozza muore qualche giorno dopo in ospedale. Nell'appartamento entra in

un medico legale per un sopralluogo. Vale la pena spiegare con lei la differenza

tra medico legale e anatomopatologo, perché a volte si fa confusione tra le due figure,

anche se spesso si sovrappongono. L'anatomopatologo indaga sulle cause della morte di una persona,

analizzando organi e tessuti. I medico legali invece indaga sulla dinamica che ha portato

alla morte della persona. Lo spiega la dottoressa Anastasia Margofa Edda, medico legale.

È soltanto in Italia. È una subprofilazione che abbiamo noi. In Italia il medico legale

è uno specialista in medicina legale e degli assicurazioni con il vecchio nome. Adesso

stiamo solo in medicina legale. E si occupa di tutta la parte di eventi violenti, quindi

tutti in quei casi, il cui c'è sospetto di reato, interviene il medico legale. Le

autopsie sono in capo al medico legale. Le autopsie di pertinenza juridica. Ad esempio

ti faccio un esempio molto semplice. Viene chiesto il riscontro del gnostico su una

salma. Il riscontro del gnostico lo fa l'anatomopatologo, perché lo fa a scopo di figgere

il sanitario, cioè comprendere la causa del decesso magari per qualche malattia particolare.

Se nel corso del riscontro del gnostico l'anatomopatologo evidenzia degli elementi che possono

ricondurre comunque il sospetto di una morti violenti audio-reato interrompe il riscontro

del gnostico, arvisa il fiamme e il fiamme domina il medico legale che conclude l'autopsia.

L'anatomopatologo è particolarmente specializzato su l'analisi dei tessuti, su l'analisi

microscopica. Siamo macroscopica che microscopica. Il medico legale ha un maggiore approfondimento

della relazione tra l'egidenza e il meccanismo che l'ha generata e l'effetto che può determinare.

Entrambe le figure professionali sono ovviamente laureate in medicina. Chi studia per diventare

un anatomopatologo fa la specializzazione in anatomia patologica che dura 4 anni. Per

diventare medico legale, dopo la laurea e medicina bisogna scegliere un'altra specialità

che dura anch'essa 4 anni, quella di medicina legale o forense. Ma torniamo a quello che

il medico legale trovò in via schiavina este. Secondo il suo pareri, giusto dalla Pozzaveva

probabilmente ha avuto un malore e, cadendo, aveva battuto la testa contro un mobile. Una

volta ripreso si, ma confuso e malfermo, aveva forse tentato di raggiungere il telefono

perché ma risoccorsi per poi crollare nuovamente sfondando la porta a vetri. Le macchie di

sangue sui muri e sui mobili sarebbero dovute al fatto di se il medico legale che l'uomo

perdendo molto sangue si era appoggiato alle pareti, tentando di restare in piedi. Ecco

da materiali d'archivio la relazione del medico. È vero simile che l'ansiano possa

aver battuto la testa contro lo spigolo, come si nota qui dalla regreta, e poi si è caduto

a terra. I carabinieri indagano negli ambienti degli usurai, seguono la pista che sembra aver

indicato la donna che ha scoperto il corpo. Non trovano nessun riscontro, indagano anche su di lei.

Si chiama Milena Quaglini e incensurata, nessuna segnalazione. Certo qualcosa non torna. Un vicino

dice di avere l'impressione di aver visto quella donna in via schiavin qualche ora prima di quando

sono stati chiamati soccorsi, ma non è sicuro. C'è anche un altro fatto. La donna dice all'inizio

di aver chiamato il 113, ma non è vero, ha chiamato solo l'ambulanza. Quando la interrogano,

dice di esserci confusa. Comunque c'è il rapporto del medico legale. Le indagini si chiudono,

è stato un incidente domestico, certifica l'archiviazione. Ora bisogna fare un salti in avanti di

qualche anno, tre anni per la precisione. È il 2 agosto del 1998, domenica. Sono alle 1550,

alla centrale operativa dei carabinieri di Stradella, in provincia di Pavia. Arriva una

telefonata da Broni, un paese di poco più di 9.000 abitanti che si trova a 4 km da Stradella.

A fare quella telefonata è la stessa voce, la stessa donna, che tre anni prima aveva chiesto

aiuto a est, dicendo di aver trovato un corpo. Questa volta quella voce, la voce di Milena

Cuaglini, dice un'altra cosa. Venite, ho ammazzato mio marito.

Il carabiniere al telefono chiede chi ci sia in casa. Le mie figlie, è la risposta.

Mi passa il più grande, dice carabiniere. La bambina dice che sta bene,

che anche sua sorella sta bene. Poi ripassa il telefono alla mala.

Le patulli arrivano mentre la donna ancora telefono con il vicio e brigadiere della centrale operativa.

I militari cercano in casa, trovano il corpo di un uomo sul balcone e a volte in un tappeto,

ha i chimos in testa, un segno evidente sul collo. Il medico legale certificherà che la

morte non è avvenuta per trauma cranico, le ferite sono lievi, è morto per asfissia.

Quell'uomo che si chiama Mario Fogli è stato incapprettato. È una tecnica utilizzata dalla

mafia. Il termine indica proprio l'azione di legare come un capretto. Pengono legati

in mani e piedi dietro la schiena facendo passare la corda attorno al collo. La persona muore strangolata

per i suoi stessi movimenti. È un atto feroce, crudele. Milena Coilini ha utilizzato una corda

da tapparella. Non spiegherà dove ha imparato quella tecnica. Forse, la ha vista in qualche firma.

Per capire questa storia, almeno conoscerla, bisogna conoscere la storia di Milena Coilini,

la donna che tra poco, sui giornali, inizierà a essere chiamata la casalinga serial killer.

Quando chiami Carabinieri dicendo di aver ucciso suo marito a 41 anni, è nata a mezzanino,

allora a 1.700 abitanti nell'Otre Pop Avese, il 25 marzo 1957.

Il padre e operario metallmeccanico, la madre fa lavori domestici in alcune case del Paese.

Non è una buona infanzia quella di Milena Coilini, ne lo sarà nemmeno l'adolescenza.

Suo padre beve molto e diventa violento, picchia la moglie, picchia Milena, picchia la sorella.

La madre non riesce a difendere ne se stessa, ne le figlie.

È una storia come ce ne sono state e ce ne sono tante, ma è anche solo l'inizio della storia.

Finite le scuole medie, Milena Coilini si scrive all'Istituto commerciale di Pavia.

Si diploma con buoni voti, inizia a lavorare come contabile in una piccola azienda che fa

impianti idrosanitari. Ecco come l'estessa raccontò la sua storia all'interno della

famiglia quando, anni dopo, parlò con i magistrati inquirenti. Ibrano è tratto dal libro di Elisa

Giobbi, Milena Coilini, assassina di uomini violenti. Non è stata una vita facile la mia,

essere Milena non lo è. Non sono e non conto niente. Da quando sono nata che ne busco dagli

uomini, che mi prendono per il collo, che mi trascinano per i capelli. È doloroso per me

ritornare con i ricordi all'infanzia, a quei tormenti, al senso di paura e di impotenza,

i sensi di colpa in cui sono stata immersa come in un mare nero e a piccicoso, come in trappola,

senza scampo. Ho ben impresi nella mente i momenti della mia fanciullezza che mi hanno

indelebilmente segnato. Lo capisco adesso. Mio padre, alcolista e violento mi ha rovinato la vita,

mia madre sempre così remissiva. I miei ricordi sono quasi tutti infelici eppure ora qui sono i

pochissimi momenti di gioia a tormentarmi. Eravamo poveri, lo siamo sempre stati e lo siamo ancora.

Casa nostra era piccola, solo tre stanze e la camera dove dormivamo tutti era proprio accanto

alla cucina. Certe notti mio padre faceva i suoi comodi mentre io e mia sorella dormivamo nella

stessa stanza. Sentivo che chiamava la mamma Troia, Cagna, Vaca. M'erano i suoi versi quelli di una

bestia. Poi li diceva, fa no smorbi, non fare la difficile. La voce della mamma non la sentivo

mai. Se non la sentivo troppo a lungo avevo paura che l'aveva ammazzata. Non saprei dire se fosse

odio il mio. Papa era sempre violento e io pensavo che tutti i padri picchiassero le figlie, che tutti

gli uomini fossero alcolisti, cattivi, despotici. Però avrei voluto che ogni tanto la mamma ci

proteggesse, gli dicesse basta togli le le mani di dozzo. Quando superavo il limite della

sopportazione mi veniva un coraggio in menso. Infatti ero l'unica che usava rispondergli e per

questo ne buscavo più di tutte. Mi diceva sei nata storta tu. Non ne potevo più di essere picchiata.

Non sopportavo più le sue mani gonfie, addosso il suo fiato fetido agli occhi giudicanti.

Avrei voluto vederlo morto stechito. Tanto non ci aveva mai insegnato niente a me e a mia sorella.

Non aveva dato affetto a nessuna che con gli altri chiamava le sue donne tututronfio che

rabbia mi faceva. Così non appena mi diplomai in ragioneria mi si invalige i miei due stracci

e di notte scappai di casa. Era l'estate del 1976. A 18 anni Milena Cuallini conosce un uomo,

si chiama Enrico, è più grande di lei e divorziato. Si sposano. I genitori di Milena

al matrimonio non vanno, il padre fu ribondo, il fatto che sua figlia sposi un uomo divorziato

e per lui un disonore, una vergogna. Le cose vanno bene. Enrico dopo aver fatto il commesso per

tanti anni apre un negozio di ferramenta. Milena Cuallini gira per la provincia Pavese facendo

lavori domestici. I soldi che guadagnano servono a pagare il negozio. Nasce un figlio nel 1979.

Poi finisceavesa tutto. Enrico si ammala, muore di diabete nel 1987. Milena Cuallini è vedova

30 anni e un figlio. In poco tempo le cose iniziano ad andare molto male. Lei da sola non riesce a mantenere

il negozio. I soldi non bastano. Torna a casa dai genitori. Ci resta poco. Trova lavoro in un centro

commerciale a San Martino Sicomario, sempre provincia di Pavia. Dopo poco viene nominata Capo Reparto.

Nel 1989 conosce un uomo. A dieci anni più di lei è divorziato. Si chiama Mario Fogli. È nato a Comacchio

nel 1946. È un convinto militante della Lega Norda. Milena spesso lo accompagnai Raduni, si scrive anche

lei alla Lega. Intanto ha trovato anche una sua passione, dipinge. Si sposano due mesi dopo essersi

conosciuti. Mario Fogli detesta il figlio che Milena Cuallini ha avuto con Enrico, il precedente marito.

La prima volta che picchia la moglie è perché lei ha difesa il figlio. La prende per

i capelli, la trascina sulla porta di casa, le dà un calcio, lo butta giù dalle scare. Mario Fogli

la costringi a licenziarsi, non vuole che entra in contatto con nessun altro uomo. Una volta che

la vede parlare con un altro le dà uno schiaffo fortissimo in strada. Nascono due figlie, a distanza

di tre anni, l'una dall'altra. Fogli passa da un lavoro all'altro, poi compro un camion indebitandosi.

Non riesce a ripagare il debito, la casa viene pignorata. Fogli,

Quallini e figli cambiano continuamente abitazione. Dapavia, alle marche, poi in veneto.

La donna inizia a bere, come il marito. Quando la vede bere, lui la picchia ancora più forte.

Un giorno lei va alla polizia per denunciarlo, ma poi se ne va. In quegli anni di violenza sulle

donne e violenza in casa da parte dei mariti, dei partner, dei padri, si parlava poco.

Una raccomandazione della CEDAV, la convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione

sulla donna dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, arrivò solo nel 1992, parlava di violenze

che colpiscono le donne in quanto donne, che originano disparità di potere tra uomini e donne

che agiscono come moltiplicatore di tale disparità. Nel 1993, LONU adottò la dichiarazione sull'eliminazione

della violenza contro le donne. L'articolo 1 dice, l'espressione violenza contro le donne indica

ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi o che possa probabilmente provocare

un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce,

la coercizione o la privazione arbitraria della libertà che avvenga nella vita pubblica o privata.

Dal 1993, la violenza contro le donne viene riconosciuta come violazione dei diritti umani.

Dice Giulia Siviero, giornalista del poste.

Parlando ai numeri assoluti, gli uomini vengono uccisi in misura superiore rispetto alle donne,

ma le circostanze e i contesti di quelle morti sono molto diversi.

Nel caso degli omicidi di donne, ci sono delle costanti, tanto che a un certo punto è

stato necessario nominarle, inventando una nuova parola, femminicidio appunto.

Ano a rendere legittima la simmetria, ci sono poi i numeri. Gli uomini si uccidono soprattutto

tra loro, mentre la gran parte dei diritti legati al genere avviene per mano maschile.

Dare i numeri di questo fenomeno nella sua complessità, comunque, non è semplice in

Italia, perché manca una raccolta dati sistematica, completa e integrata.

Lo ripetono da tempo non solo la rete dei centri anti-violenza o i movimenti femministi,

come non una di meno, che ad un co avviato un proprio osservatorio dal basso con numeri e analisi,

vanno dicono anche le istituzioni europee.

Informazioni statistiche adeguate permettono di comprendere il fenomeno e di fare scelte consapevoli

e sensate su prevenzione, contrasto o per orientare i fondi a disposizione.

Dei numeri però si possono dare. Il ministero dell'interno, usando la banca dati della polizia,

pubblica ogni settimana un report aggiornato sugli omicidi volontari,

specificando il genere delle persone uccise e il contesto minimo di questi episodi.

Dal primo gennaio al due luglio di quest'anno in Italia ci sono stati 163 omicidi.

60 vittime erano donne e di queste 60, 48 sono state uccise in ambito familiare o affettivo,

e dunque secondo gli stat potrebbero essere considerati dei femminicidi.

28 di queste donne sono state poi uccise direttamente dal partner o dall'ex-partner.

L'anno scorso le uccisioni di donne che sono avvenute in un contesto domestico

sono state 104, l'82% del totale. Sono stati 67 i delitti totali commessi da partner o ex-partner,

e in 61 di questi 67 casi le vittime erano donne. Questo significa che in Italia nel 2022

le donne sono state vittime del 91% degli omicidi commessi da partner o ex-partner.

Più in generale è possibile dire, e anzi lo dice proprio Distatt,

che affronte di una generale diminuzione degli omicidi volontari dagli anni 90,

si mantiene elevato il numero di donne che vengono uccise da persone a loro vicine.

Proporzionalmente, come incidenza sul totale degli omicidi, si tratta di un dato in crescita.

Nel 1994, Fogli caccia di casa il figlio a l'ora 15 anni di Milena Qualini.

Lui va vivere dalla nonna. Dopo pochi giorni anche Milena se ne va con le due bambine,

va dalla madre, ma la madre le dice che in casa non c'è posto.

Torna dal marito, ricomincia la storia. Milena Qualini beve ancora molto.

Un medico le ha prescritto psicofarmaci. Una sera si taglia i pulsi e avvolge attorno

alle ferite due asciugamani. La porta una pronto soccorso, poi torna a casa. Non sa dove altro andare.

Più volte se ne va, poi torna.

Nel 1995 lascia il marito per l'ennesima volta. Gira per inorda a la ricerca di un lavoro

di una sistemazione. La trova a este, vicino a Padova. Qua danni a 700 mila lire al mese per

pulire ogni sera tardi una palestra. Poi c'è quel uomo, giusto dalla pozza, che le offre

quattro milioni in prestito per pagare la casa in affitto e sentirsi più sicura.

In cambio lei deve andare a cucinarli la cena e pulire un po' la casa.

Quando giusta dalla pozza muore, nel 1995, Milena Qualini torna un'altra volta dal marito.

Disse il filosofo e psicanalista Umberto Galimberti alla trasmissione linea d'ombra, dirà i due.

Nei rapporti di coppia, nonostante le cose trucculente che avvengono nella famiglia,

le cose vanno avanti lo stesso perché l'amore non è tutto. Ci sono le condizioni economiche,

ci sono i figli, ci sono le proprie insicurezze, la paura della solitudine, c'è l'idea di non poter

ce la fare da sola. C'è la cultura cristiana che invita la sopportazione a sacrificio.

Poi, per quanto riguarda la possibilità che esista un rapporto vittima carnefice,

questo è previsto in tutte le coppie. In tutte le coppie c'è un dominante e un dominato.

Quando questo diventa eccessivo avremo episodi non dissimili da quella perversione

citata da Freud e definita sadomasochismo. Ciascuno di noi è masochista e ciascuno

di noi è sadico. Naturalmente si diventa sadici quando c'è un soggetto predisposto

al masochismo e si diventa masochisti quando non si ha la forza di essere sadici.

Ma il rapporto sadomasochista, detto tra virgolette, è la relazione abituale di qualsiasi rapporto

di coppia. Tutto ricomincia come prima. Foglie quallini iniziano le pratiche per la separazione,

ma lei comunque non se ne va di casa. Non saprebbe dove andare, poi beve tanto, spesso non è lucida.

Dice Elisa Gioppi. Però credo che la figura di Mirena c'è la persona. Mirena quallini

non sia stata compresa in generale, diciamo, quindi dalla società, dalla famiglia,

dagli uomini, dai medici che l'hanno avuto in cura perché comunque era una persona che soffriva

di molti problemi psichici, di alcolismo, insomma, di grossi traumi anche subiti nell'infanzia.

Per cui diciamo che anche da parte dei servizi sociali che l'hanno avuto in carico è anche da

un punto, lei è stata poi recuperata, insomma, nel reparto alcologia, eccetera, però non

hanno avuto anche i professionisti grossi problemi a capire, in realtà, a comprendere

le origini di questo grosso disagio che l'ha portata appunto a uccidere.

L'1 agosto 1998, in casa, ci sono 1.000 quallini, Mario Fogli e le due bambine.

Lui avevuto molto, anche lei avevuto. Sta dipingendo un quadro, è ritratto di suo figlio,

vuole regalarglielo per il compleanno. Fogli va davanti al quadro e dice alla moglie,

la devi piantare di fare ste robe, non vedi che fanno schifo. Spacca la tela con una ginocchiata,

poi va a sedersi sul divano, chiede che la moglie li porti un gelato.

Lei lo fa, li dice, to. Lui si alza a urla, che cazzo mi dici, to, come ti permetti?

Li digano forte, poi vanno a letto. Fogli si addormenta.

Il racconto di cosa accadde è quello che fece la stessa milena quallini il giorno dopo, è carabinieri.

Va nello scabuzzino, in un cassetto trovo una cinghia per le serrande.

Ne taglio un pezzo lungo e forma due cappi all'estremità, fa un nodo scorsoio.

Va in camera da letto, passa un cappi intorno alle caviglia del marito, stringendo appena.

Poi fa passare la cinghia intorno ai polsi e mette l'altro cappio intorno al collo.

Lui non si accorge di nulla. Il racconto che segue è pesante e terribile.

È quello che fece Milena Quallini, come è riportato nel libro di Gioppi.

Per chi vuole saltare il racconto dura 50 secondi.

Quando passa il cappi intorno al collo, Milena Quallini stringe forte.

Fogli si sveglia, cerca di avventarsi contro la moglie, ma è goffo,

crolla dal letto, con la faccia contro il pavimento.

Lei prende una lampada sul comodino e lo colpisce alla nuca.

Lui si è liberato le mani, lettera un colpo forte al volto.

Ma le caviglia e collo sono bloccati dalla cinghia.

Lei prende un porta gioia e un cofanetto e lo colpisce ancora la testa forte.

Si alza, ferra la cinghia e tira finché non sente l'uomo tossire.

Allora lenta un po' la presa. Ma Fogli sta soffocando.

Lei a quel punto, secondo il suo racconto, corre in cucina per cercare qualcosa con cui tagliare la corda.

Prende un coltello e torna in camera daletto.

Prova a tagliare la cinghia, ma Fogli già non respira più. La ha ammazzato.

Direi i carabinieri che non volevo ucciderlo.

Dargli una lezione, questo sì, ma non ammazzarlo.

Al mattino Milena Coaglini si rende conto che le bambine svegliandosi vedranno il corpo del padre.

Allora va in cucina, prende dei sacchi neri, avvolge il corpo, quindi prende una coperta e lo avvolge anche in quella.

Lega tutto con una corda e utilizzandola, trascina Mario Fogli in balcone.

Lo nasconde sotto un tappeto rosso e giallo a quadrettoni, che appende alla ringhiera, come per farli prendere aria.

Sopra il corpo, butto un telo e dei giornali.

La mattina passa così in maniera surreale, con le bambine che giocano per case il corpo del padre sul balcone.

Milena Coaglini prepara il pranzo.

Poi però c'è il timore che si inizia a sentire l'odore, e il due aggogli in balcone.

Milena Coaglini dice alle bambine di andare a giocare in camera, alle 15.50 chiamano i carabinieri.

Questi sono i fatti, così come sono stati raccontati da Milena Coaglini, la portano in carcere, l'accusa e un incidio volontario.

Dovrà essere valutata la premeditazione.

Milena Coaglini, nel carcere di Milena Coaglini, fa un caldo insopportabile.

Secondo l'associazione Antigone, da molti anni la presenza femminile in carcere rappresenta poco più del 4% della popolazione totale dei reclusi.

Al 31 gennaio 2023 le donne in carcere erano 2392, di cui 15 madri, con 17 figli a seguito.

Secondo i dati forniti dall'associazione Antigone, le donne rappresentano circa il 18% delle persone arrestate o denunciate.

Nel 2021 sono state 151.860, quindi il 18,3% del totale, mentre gli uomini sono stati 679.277, cioè l'81,7% del complesso di persone perseguite.

Sempre secondo Antigone, il numero di obbicidi compiuti dalle donne è molto basso.

Spesso il reato si ferma la soglia del tentativo, mentre gli omicidi volontari consumati e gli omicidi preteri intenzionali sono infrequenti.

Nel 2021 le donne arrestate o denunciate per omicidio colposo rappresentano lo 0,2%, lo 0,06% quelle denunciate o arrestate pertentato omicidio,

lo 0,04% per omicidio preteri intenzionale e lo 0,03% per omicidio volontario consumato.

Milena Qualini faceva parte di quella percentuale.

Quando una persona entra in carcere in gergo burocratico, viene chiamata Nuova Giunta o Nuovo Giunto,

vengono effettuate le perquisizioni corporali e la visita medica.

Si accerta se la persona è dipendente da qualche sostanza.

Dice Antonia Sorge, ricercatrice dell'Università Cattolica di Milano in psicologia penitenziaria.

Milena Qualini ha avuto una storia familiare piuttosto complicata, complessa e dolorosa.

Ha avuto un padre violento che agiva la sua aggressività non soltanto nei confronti della mamma di Milena Qualini,

ma anche nei confronti della stessa Milena e delle sue sorelle.

Questo si combinava anche con un atteggiamento piuttosto pastivo da parte della madre,

che non difendeva se stessa e non difendeva neanche le figlie da questo padre violento.

Subire in età infantile e paia dell'essenziale la violenta da parte di un genitore

è una delle esperienze più traumatiche che le persone possano sperimentare,

proprio perché si vive un tradimento da parte di quelle che dovrebbero essere le figure

deputate a prendersi cura e soddisfare tutti i bisogni che l'essere umano necessita che vengono soddisfatti.

Primo di tutti il bisogno di appartenenza, il bisogno di intimità interpersonale.

Qui credo che si sia in lei strutturato quello che oggi viene definito un disturbo da stress posttraumatico complesso,

che è diverso, è una categoria diagnostica diversa del disturbo da stress posttraumatico,

è stata introdotta tra l'altro negli cd-11 che è la grazificazione internazionale dei disturbi dell'OMS

solo nel 2019, quindi la produzione scientifica su questo disturbo ha avuto a bio a partire dagli anni 2010 in avanti.

E' una categoria diagnostica che si riferiscela proprio a dei marcatori ben specifici,

che sono l'aver esperito un vestuto traumatico nell'infanzia e cronico,

quindi essere stati esposti a violenza domettica, abusi o anche torture, situazioni dalle quali era presto che impossibile sottrarsi.

Da qualche tempo l'alcool di pendenza viene trattata con un farmaco a base di H-Amprosato,

una molecola che interviene sui meccanismi dell'assinenza d'alcool che comprende tremori, convulsioni, vomito, diarrea.

Alte i sintomi sono allucinazioni o illusioni visive, ma anche tattili auditive, ansia e in sogna.

Quando Milena Coaglini entrò in carcere a Vigevano, questo farmaco ancora non era ampiamente utilizzato.

Le crisi di assinenza venivano generalmente trattati con la prescrizione da parte del personale medico di benzo di azzepine,

oltre che, se necessario, con farmaci per contenere le convulsioni e stabilizzatori di umore.

Per brevi periodi e con specifiche restrizioni, poteva e può essere usato anche il GHB,

e cioè l'acido, gamma, idrossi e butierrico, quello che spesso sui giornali viene chiamata Droga dello Stupro,

perché acquistata attraverso canali grandestini in forma di liquido di polvere, riduce la capacità e la volontà di reagire della vittima.

Il processo a Milena Coaglini è veloce, ha confessato e ha raccontato il delitto nei minimi particolari.

I giudici applicano attenuanti, ma anche l'aggravante di Uxoricidio, viene condannata a 14 anni di reclusione,

in carcere e colpita da una forte depressione.

Il professor Mario Mantero, docente di psicopatologia forense, viene incaricato dall'avvocata Alicia Sardo di effettuare una perizia psichiatrica.

Nella sua relazione scrive che la donna rielapparsa, inevidente, stato confusionale, con il corpo attraversato da forti convulsioni,

dovute probabilmente alle crisi di astinenza da alcoe.

Secondo Mantero, Milena Coaglini non doveva essere giudicata come una persona capace di intendere di volere.

Alla donna vengono concessi gli arresti domiciliari.

Il problema è che per poter accedere agli arresti domiciliari bisogna avere appunto un domicilio.

Milena Coaglini chiede aiuto alla madre e alla sorella, che però si rifiutano di accogliarla in casa.

Trova hospitalità in una comunità religiosa per minori.

Fa le pulizie nell'Istituto, in cambio, le viene offerta un posto dove dormire e i pasti, solo che non ha smesso di bere.

Introdurre alcolici in una comunità per minori non è una buona idea.

Milena Coaglini, dopo un mese e mezzo, viene cacciata dalla comunità.

La sua vocata, Lice Sardo, fa in modo che possa entrare in una clinica della fondazione Maugeri, per guarire dalla dipendenza da Alcor.

Così la ricorda Giovanni Vittadini, all'ora responsabile del reparto di arriabilitazione archeologico della fondazione Maugeri di Pavia.

Quello che mi aveva colpito fin dal primo colloquio era stata la notevole dose di dirabbia, che ancora covava in questa persona.

Era passato più di un anno, dal giorno dell'omicidio, ma la rivendicatività nei riguardi del marito, secondo me non si era ancora completamente sopita.

E comunque io non ho trovato traccia di nessun pentimento, di nessun senso di colpa.

Certo, quando ne parlavamo, lei più voce senza che le fosse richiesto, aveva pronunciato frasi tipo, guardatevi indietro, mi sono accorta dei miei errori,

mi sono reso a conto di aver sbagliato, di aver fatto una cosa orribile, ma credo che lei non credesse una parola di quello che stava dicendo.

Anzi, in un certo senso potrei dire che tutto sommato sembrava che pensasse che aveva fatto benissimo a fare quello che avevo fatto,

che tutto sommato si era solo difesa, aveva semplicemente riaffermato i suoi diritti e quindi era giusto che le cose fossero andate come erano andate.

Quando parla dell'omicidio del marito, Milena Qualini lo fa con razionalità, racconta tutti i particolari anche troppi, sottolineano le perezze.

Il Professor Mario Mantero, il primo specialista da averla visitata, dice che in lei non nota nessun pentimento.

Si sente in colpa per le figlie, perché non hanno più un padre, ma verso il marito prova ancora rabbia, risentimento.

È come se avesse deciso di non essere più viti, ma non lo importasse nulla di aver ucciso, come se considerasse ciò che ha caduto una conseguenza naturale degli eventi.

Il Professor Mantero dice che da anni Milena Qualini è colpita da un profondo stato depressivo e psicotico-isterico.

L'alcol le ha nullato, secondo la sua analisi, la capacità a critica.

Quando si avvicina il processo d'appello per l'omicidio di Mario Fogli, nessuno ha ancora capito che la storia dell'arabbia di Milena Qualini era iniziata già molto tempo prima e che certo non sia ancora esaurida.

Adette ascoltato la prima parte di Indagini, sulla storia di Milena Qualini.

Trovate la seconda parte tutte le altre storie sull'app del post e su tutte le principali piattaforme di podcast.

Indagini è un podcast del post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.

Sottotitoli a cura di QTSS

Machine-generated transcript that may contain inaccuracies.

Il 2 agosto 1998, domenica, alle 15.50 una donna telefona alla stazione dei carabinieri di Bascapè, in provincia di Pavia. Dice: «Venite, ho ucciso mio marito». Il corpo dell’uomo è sul balcone, avvolto in una coperta e nascosto da un tappeto. La donna ha ucciso il marito la sera prima, al termine di una lite. Entrambi, come facevano con continuità, avevano bevuto molto. In casa c’erano le due figlie della coppia che non si erano accorte di nulla.
Poi quella donna uccise ancora. Si scoprì che aveva ucciso anche in precedenza: sempre uomini violenti, che l’avevano maltrattata, l’avevano violentata o avevano tentato di farlo.
Quella donna si chiamava Milena Quaglini, i giornali la chiamarono la vendicatrice del pavese o la casalinga serial killer.
La sua è una storia di violenza, subita e inflitta, di tre omicidi che la Giustizia italiana considerò in maniera diversa nei tre gradi di giudizio e di come anche le perizie psichiatriche diedero risultati diversi l’una dall’altra. Tutte le perizie però concordarono su un punto: Milena Quaglini non dimostrò mai nessun pentimento: considerò quello che aveva fatto come una conseguenza logica di ciò che aveva subito fin dall’infanzia.
Sulla sua storia, sulla sua reale lucidità quando commise i delitti, sull’effettiva capacità di intendere e di volere e su quanto la dipendenza da alcol abbia influito sulle sue azioni restano ancora molti dubbi, tante domande che non potranno mai avere risposta. E resta una domanda senza risposta anche se Milena Quaglini, nella sua vittima, abbia ucciso anche altri uomini, oltre ai tre accertati dalle indagini.

Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi