Indagini: Emilia-Romagna e Marche, 1987-1994 - Prima Parte

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103, 23, 114, tenete a mente questi numeri e tenete a mente questo elenco.

3 pistole Beretta Calibro 9, un fucile d'assalto Kalashnikov, 3 pistole semiautomatiche di

fabbricazione ungherese Calibro 9 Parabellum, un fucile Remington Modello 700 Calibro 222,

un fucile Beretta semiautomatico AR70, una rivoltella Tamburo marca Colt, un pugnale con

lama di 18 centimetri e custodia in cuoio, un pugnale di 16 centimetri con manico chiare

in madre perla, un coltello serramanico in acciaio, un pugnale con manico in gomma,

4.462 munizioni varia, 3.022 bossori, 3.086 give, 7.089 meschi, 4 chili di polvere da

sparo, 5 chili di precursori per esplosivi, le sostanze che servono per fabbricare una bomba.

Tutto questo venne trovata a casa di una persona, di un capo e più insospettabile tra tutti gli

assassini. Poi c'erano i suoi complici, e quell'elenco va moltiplicato per 5 e 6 volte,

vanno aggiunte decine di altre pistole, esplosivi, coltelli a scatto, fucile a pompa,

fucile a ripetizione manuale, le versioni cosiddette civili di armi da guerra.

Questa storia inizia a lungo noto a strada, la A14 che da Bologna porta Taranto in Puglia.

La notte del 19 giugno 1987, un'auto, una fiateregata grigia con la targa

illeggibile perché è coperta di fango, accostò al casello dell'uscita di Pesaro.

Scesero due rapinatori, avevano entrambi un fucile a pompa, minacciarono l'ha detto al

casello e portarono via 1.300.000 aliere, sarebbero poco più di 1.500 euro oggi.

Quella notte a Pesaro era iniziata una bruttissima storia, tanto incredibile quanto cattiva.

Contò il denaro, ma forse di più la ferocia affine a sé stessa.

È una storia di cui non si è ancora capito tutto.

Ma torniamo a quei numeri iniziali. 103, 23, 114.

103 è il numero delle azioni in criminali, 23 il numero delle persone uccise.

114, il numero dei feriti.

Furono ammazzati e feriti durante rapine a banche, caselli autostradali, uffici postali,

supermercati da baccherie, ma furono anche uccisi così per nulla, per uno sguardo.

E a volte non ci fu nemmeno quello.

Questa è una storia che racconta la capacità che hanno alcuni esseri umani di fare del

mare. Il 26 giugno 1989 a Bologna un uomo di 53 anni stava pedalando in bicicletta, vestita

con una tuta da ginnastica, vidè due uomini che correvano sparando in aria, avevano appena

rapinato un furgone e portava l'ori, gli urlò, saffette, delinquente, in dialetto

bolognese.

Cosa fate delinquenti?

Uno dei banditi si fermò, torno indietro, li puntò contro il fucile, sparò e lo uccise.

Il 18 agosto di due anni dopo, tre ragazzi originari del Senegal erano in auto, a bordo

di una fiat uno blu, lungo la statale Adriatica, dalle parti di San Mauro Mare, nella provincia

di Forlicesena. Erano lì in vacanza, facevano immuratori tutto l'anno nelle chese. Un auto

a fianco la loro, i finestri inizi abbassarono e da dentro iniziarono a sparare con un fucile.

Moriron due ragazzi, il terzo sopravvisse. Quando lo interrogarono non riuscì a dire

perché qualcuno avesse sparato. Non c'era motivo disse, nessuna ragione. Infatti, non

c'era.

Prima dopo in mezzo a questi due episodi ce ne sono stati tanti altri, sempre con una

caratteristica, un uso senza nessuno scrupolo delle armi. Spararono in mezzo alla strada,

nei locali pubblici, a piedi e dalle auto, spararono anche a chi non poteva difendersi.

Spararono a chi stava dormendo e a chi stava tranquillamente pedalando in bicicletta. Un

testimone che li vide in azione disse che i banditi procedevano quasi in formazione,

con movimenti coordinati. Dopo ogni sparo si piecavano leggermente sulle ginocchia per

ammortizzare il colpo. Sembrava una danza, spiegò.

Libero Gualtieri, ex assenatore emiliano, presidente in quegli anni della Commissione

Stragi disse, non hanno mai sparato per apresi la strada verso l'obiettivo, né per proteggersi

la fuga. Sparavano per uccidere. Sembrava che solo questo importasse loro, più ancora

del bottino.

Questa storia ha coinvolto due regioni, Emilia Romagna Marche, per 7 anni. È una storia

di indagini difficili, ma anche di depistaggi, di svista e clamorose, di coincidenze incredibili.

È la storia di un'identichita pesa in una baccheca, e quell'identichita era identico

al volto di una persona che davanti a quella baccheca passava ogni giorno. Ci passava lui

e ci passavano coloro che lavoravano con lui. Eppure nessuno notò la somiglianza. È la

storia del lungo, del corto e dell'anello debole e di due investigatori che alla fine

capirono quello che sembrava inimmaginabile. Ma è anche una storia in cui mai ci fu,

in chi commise quei delitti, un istante di pietà. Quegli uomini fecero esplodere la

malvagità in tutta la sua potenza. Malvagità non c'è un altro termine per definirla.

Questa è la storia della banda della regata grigia che a un certo punto divenne la banda

della uno bianca. Io mi chiamo Stefano Nanzi, faccio il giornalista

da tanti anni e nel corso della mia cariera mi sono occupato di tante storie come questa,

quelle che nel tempo vi sono diventate familiari e altre che potreste non avere mai sentito

a nominare. Storia di Cronaca, di Cronaca Nera, di Cronaca Giudiziaria. Il podcast che state

ascoltando sentitola in indagini ed è prodotto dal post. Vi racconterò ogni mese, una volta

al mese, una di queste storie, tentando di mostrare non tanto il fatto di Cronaca in

sé, il delitto in sé, ben sì tutto quello che è successo dopo, il modo in cui si è

cercato di ricostruire la verità. Le indagini giudiziari e i processi con le loro iniziative,

le loro intuizioni e loro errore, il modo in cui le indagini hanno influenziato la reazione

dei media e della società, e il modo in cui media e società hanno influenziato le indagini.

Alla prima rapina del casello autostradale di Pesano ne seguì un'altra, sette giorni dopo,

al casello di Riccione. Altri sei giorni e venne rapinato quello di Cesema. Nella stessa notte

tocco a Rimini. Altri quattro giorni rapina al casello di San Lazaro di Savena, in provincia

di Bologna. 12 giorni dopo di nuovo Riccione. Altri sei giorni a Ancona, sette rapine in poco più

di un mese, dal 19 giugno al 24 luglio. Lo stesso 24 luglio dopo il casello di Ancona,

i rapinatori entrarono nell'ufficio postale di Coriano, in provincia di Forli. Poi tre giorni

dopo un altro casello, di nuovo a San Lazaro di Savena, e il quattro agosto ancora a Rimini.

Il 13 agosto rapina al casello di Riccione. Il 31 agosto è di nuovo al casello di San Lazaro di

Savena. Non ci sono soldi, e appena passato il furgone porta valori a ritirare l'incasso della

giornata. Uno dei banditi si nervosisce

spara con il fucile a pompa alla gamba dell'addetto del casello, Roberto recuperati. Il 5 settembre rapina in un altro casello autostradale, a Cesena.

D mos.

di noi stessi, più convinti, più decisi. Se ne fa una, se ne fa un'altra, è un'altra ancora,

poi ci si trova a farne una dietro l'altra senza neanche accorgerse ne.

Alzam molti romossi dal desiderio dei soldi, dall'avidità, una avidità spinta anche dal

bisogno di provare maggiori emozioni. I bottini sono scarsi, l'impiego di armi,

sproporzionato. Usano sempre una fiata regata grigia con la targa sporca di fango. Sui giornali

la chiamano la banda della regata fantasma. Ricorda il giornalista Giampiero Moscato,

all'ora capo dell'agenzia Ansa Bologna, inviato del Corriere della Sera.

Quello che veniva notato era appunto che avevano un armamentario dei rapinatori

importanti e in realtà facevano dei bottini modesti. Si è poi visto che non era poi del tutto vero

nemmeno questo perché alla fine il bottino comunque nel numero di rapine che avevano

fatto non era stato così risore. Comunque effettivamente il problema era, questi andavano,

erano pronti a tutto, volevano evitare qua il caso di intercettazione da parte delle forze

dell'olio e quindi erano armati per poter spusire. Ma non si è mai dato il caso perché erano

rapine talmente modesti e talmente improbabili che alla fine questa situazione di pericolo,

perdono, si è mai verificata. Certo che si presentavano con un piglio molto molto molto aggressivo.

Poi le rapine a caselli si fermano e succede altro.

Ai primi di settembre un concessionario di autodirimini, Savino Crossi, riceve una lettera.

C'è scritto. O ci dai 30 milioni di lire o ti ammazziamo.

Il 10 settembre di notte qualcuno spara colpi di proiettile contro le vetrine del suo autosalone.

Poi richiamano grossi, dicono, hai visto che succede se non ci dai retta?

Lui risponde, va bene, vi pago. Va però al commissariato di rimini e racconta tutto.

La consegna del denaro agli estorsori viene organizzata per il 3 ottobre.

L'appuntamento è fissato sotto un viadotto dell'autostrada a 14, vicino a rimini, di notte.

L'auto di grossi è seguita da un auto in burguesi e della polizia.

I banditi hanno detto, prendi l'autostrada a Rimini Sud, poi esce a Bologna,

tornando indietro verso Rimini. Fermati sotto ogni ponte e conta fino a 10,

dove vedrai una borsa che, penso la dal ponte, metterà i 30 milioni.

L'auto di grossi e le auto della polizia arrivano sotto un ponte, a 4 chilometri da cesena.

Si fermano. Quando vedono che Sabino Grossi non è solo, i banditi iniziano a sparare.

A bordo di una delle auto della polizia, assieme ad altre agenti,

c'è un funzionario della quesora di Rimini che sarà poi molto importante in questa storia.

Si chiama Luciano Baglioni. Quella notte sparò verso la figura di un uomo alto, con un impermeabile

chiaro, che scappava risalendo una scarpata, sparando a sua volta.

Ha ricordato, parlando con un programma di RAI2, Hada di Campi, che quella sera era sull'auto della polizia.

Io ho capito di essere stati oggetto di un confrittafuoco crudele e vicidiale.

Hada di Campi è stata ferita le gambe. Un altro agente, Luigi Cenci, che era nascosto

nel bagagliaio dell'auto di Grossi, è stato colpito al collo appena sceso dall'auto.

La gente Antonio Mosca è stato ferito con 5 proiettili al torace. Un altro proiettile

è entrato nello zigomo. I medici devono asportarli una parte di polmone.

Morirà due anni dopo per un tumore. Anche se i periti hanno detto che non era certa

la connessione con le ferite riportate, il fisico debilitato non lo ha aiutato a combattere

la malattia. L'11 novembre tentano di rapinare l'ufficio

postale di Idice in provincia di Bologna, ma la rapina va male.

Il 21 novembre saltano la Prima Colp, a Cesena. Vengono rubati 78 milioni di lire. Il 14

dicembre ci riprovano Idice, niente di fatto nemmeno sta volta. Sparano sempre di più.

I giornali con frasi fatte con suete parlano di inferno di fuoco, pioggia di piombo. Sono

frasi fatte appunto. È vero però che quella banda usa le armi

senza nessun freno. Potrebbero lasciare a terra decine di vittime e sembra che non li

importi nulla. Il 30 gennaio 1988, una fia targenta arriva

davanti al supermercato cop del quartiere Celle, a Rimini. E lo stesso estante in cui

arriva il furgone porta valori per prelevare l'incasso della giornata. I banditi scendono

dall'auto. Potrebbero portarvi ai soldi solo minacciando

le guardie e invece iniziano a sparare. Muore una guardia aggiurata, Giampiero Piccello.

L'altra guardia aggiurata, Rodolfo Miccoli, viene ferita gravemente.

I rapinatori sparano attorno senza alcuna ragione al consenso. 8 proiettili colpiscono

una bambina di 9 anni, anche alla testa e al volto. Sopravviverà.

Poi i banditi risalgono in auto e vanno via. I soldi rimangono nel piazzale.

A Rimini, capitale del divertimento estivo, una sanguinosa rapina ha proposto ieri sera

un tragico scenario da metropolia americana. In una sparatoria davanti ad un supermercato

nella zona Celle è stata uccisa una guardia aggiurata e 6 persone sono rimaste ferite.

20 giorni dopo lo rifanno, a Casalicchio di Reno, in Via Marconi, ha ancora un supermercato

cop. I rapinatori sono appostati, alle 20 arriva il furgone e porta valori. A bordo ci sono

due guardie aggiurate, altre due sono discorda su una fiatta ritmo. Mentre iniziano le operazioni

esplode una bomba piazzate in un giardinetto vicino alla cassa continua. Subito dopo tre

uomini escono da un'auto ferma le vicine e iniziano a sparare. Carlo Beccari, guardia

aggiurata, muore subito. Tre altre guardie sono ferite. I soldi, circa 100 milioni di

lire, sono coperti dai detriti e delle esplosioni. I banditi li lasciano lì. Salgono su una

Y-10 che era stata rubata a Ravenna e vanno via con il portellone posteriore aperto. Uno

di loro è seduto nel bagagliaio con le gambe che sporgono dall'auto e impugna un fucile

mitragliatore. Hai passamontagna sul volto. Sembra una scena messicana e casalecchio di

reno in Emilia Romagna. Dice Antonella Beccaria, scrittrice, giornalista, autrice del libro

Uno Bianche Tra Me Nere. La violenza inizia a manifestarsi e a

di spiegarse in tutta la sua forza, perché se prendiamo per esempio la rapina alla coppa

di casalecchio di reno, noi vediamo che in orario di chiusura del supermercato, in attesa

che arrivasse il furgoncino delle guardie giurate a prelevare l'incasto della giornata, viene

posizionato a una piccola carica di esplosivo, per cui c'è anche l'esplosivo. Non ci sono

solo le armi da fuoco nella storia della banda, della Uno Bianche. È una bomba non particolarmente

potente, che deve sostanzialmente cogliere di sorpresa i vigilantes e sparano con armi

a ripetizione, in questo caso modificate perché quel tipo di armi a ripetizione erano solo

in uso militare, avevano la versione civile modificata ed era una vera e propriazione

di guerra. Nessuno mette a relazione le rapine alle coppa con quelle ai caselli autostradali,

ne tanto meno con l'attentata assorzione al titolare dell'autosalone dei rimini. Eppure

un elemento in comune già evidente, l'uso massiccio delle armi e anche il tipo di armi.

Spiega Alessandro Pavani, carabiniera in congedo ed esperto di armi.

Le armi più frequentemente utilizzate dalla banda sono state senza dubbio quelle di foggia

militare. Il Sigmanurin FSA, che è la versione civile del SIG 540, un fucile dell'assalto.

Il Beretta R70 Sport, che è la versione civile anch'esso del Beretta SC 7090, arma in dotazione

all'esercito italiano. Diciamo che le versioni civili sono sostanzialmente diverse per la

meccanica, da punto di vista estetico sono identici. Da punto di vista meccanico sono

caratterizzati dall'assenza del tiro raffica, elemento fondamentale, e a quel tempo dal

calibro, perché il calibro 222 Remington era utilizzato per i civili in luogo del 223,

che è sostanzialmente lo standard nato 556 x 45. Diciamo che per l'esività sono armi

che possono essere paragonate all'ermi da caccia, al monuzionamento disponibile per

i civili infatti limitato, non ha tutte le varianti che sono disponibili per gli usi

militari. Per quello che riguarda le armi corte i calibri più frequentemente utilizzati

sono stati il 38 il 357, calibri molto diffusi e con una disponibilità di munizioni commerciali

molto ampia. Anche in versione particolarmente lesive per difesa, che prevedevano ad esempio

le palle Jacketed All of Point, palle che hanno un disegno particolare per cui quando

attingono il bersaglio tendono ad espandersi, garantendo la maggior cessione di energia

possibile e quindi una maggiore lesività. Certo però che l'impatto visivo che ganno

queste armi nei confronti di chi subisce

un'erapina o un'assalto è sicuramente più determinante rispetto a trovarsi di fronte

una doppietta la caccia, ecco questo secondo me è stato per loro un elemento determinante

di scelta. I proiettili usati dalla banda della UNUBianca

sono quindi Jacketed All of Point, sono i diretti successori dei proiettili DOOM DOOM che

erano inventati alla fine del XIX secolo da un capitano inglese, Neville Berti Clay, distanza in India.

La sera del 20 aprile 1988 i banditi si appostano fuori dal supermercato Cop de Via Gransci a Castel Maggiore,

fa quel giro ogni sera. Si avvicina alla UNUBianca i due carabinieri aprono le portiere e stanno per uscire dall'auto.

un'infermiera che abita le vicino senti gli spari e le urla poi silenzio scende in strada, ecco cosa raccontò.

Nessun sedile, non ha detto nulla, insieme con mio marito e un'altra persona l'ho girato e mi è sembrato che respirasse. Mi sono sentita una nullità. Morivano due ragazzi e non potevo farci nulla.

Poi un minuto dopo arrivata l'ambulanza e quella fretta mi è sembrata un po' irreale, quasi stonata, per cui due ragazzi c'erano mai solo da piangere.

Nei primi nove mesi del 1988 i banditi della UNUBianca hanno tentato tre rapini alle Cop. Hanno ucciso quattro persone e ne hanno ferite nove. Non hanno portato via nemmeno una lira.

Come già accaduto in altri casi, sulle rapine e caselli ai supermercati indagano procure diverse. Bologna, Rimini, Pesano, Forlì, Cesena, senza parlarsi tra loro.

Dice Giampiero Moscato. Questi aggivano appunto in diverse province perché Bologna, Forlì, Cesena, Rimini, Pesano, Le Marche, insomma, ogni delitto competteva una procure diverse.

Dopo l'assassinio dei due carabinieri a Castel Maggiore, la una bianca dei banditi viene abbandonata circa 500 metri dal luogo dell'omicibio.

Sul tappetino, all'interno della macchina, viene trovata la cartuccia in esplosa di una 38 Special e sul cruscotto un'impronta digitale, solo anni dopo quell'impronta verrà attribuita, inequivocabilmente.

Ma è sulla cartuccia che adesso bisogna concentrare l'attenzione, perché nell'armadietto del bagno dell'abitazione di Salvatore Adamo, originario di Enna, ma residente a Castel Guelfo di Bologna, arrestato qualche settimana dopo per traffico di droga,

vengono trovati cinque bossoli di 38 Special Marche a Winchester, bossoli, non cartucce, però quei cinque bossoli sono identici a un bossolo trovato sulla uno bianca. C'è qualcosa di strano però, perché dopo il ritrovamento dell'auto era stato detto che era stata rinvenuto solo una cartuccia in esplosa.

Ora invece è saltato fuori anche un bossolo, c'è una delle parti di una cartuccia esplosa.

Bisogna capire bene cos'è una cartuccia e cos'è un bossolo, che non sono la stessa cosa.

Alessandro Pavant spiega che la cartuccia, nome comune della munizione che deriva dall'involucro di carta che un tempo conteneva la polvere da sparo, è composta da quattro parti.

Logiva o proiettile o palla, che è l'elemento che viene proiettato verso il bersaglio. Il bossolo, che è l'elemento che contiene la polvere da sparo o da lancio e che viene spulso dall'arma.

La polvere da sparo o da lancio è infine l'inesco che è il piccolo cerchietto che percorso dal cane innesca la reazione di sparo.

Il bossolo espulso, secondo la versione ufficiale, sarebbe stato trovato dopo un controllo più attento sotto un tappetino della uno bianco.

Ma come un controllo più attento? Significa che i primi controlli di un auto utilizzata da tre persone che hanno ucciso due carabinieri sono stati fatti in maniera non accurata?

Infatti è che quel bossolo, nella uno bianco, è stato messo dopo, così come cinque bossoli identici, sono stati piazzati apposta nell'armadietto del trafficante di droga arrestato, Salvatore Adamo.

È un depistaggio, un classico palese depistaggio. Lo si scoprirà piuttosto presto, due mesi dopo l'omicidio dei due carabinieri.

Il 17 giugno viene arrestato a Bologna, domenico Macauda. È un carabiniera anche lui, pregadiere in servizio un nucleo operativo di Bologna.

Ha messo lui quei bossoli, sia nell'auto degli assassini, sia a casa di Salvatore Adamo. Perché? Lo ha fatto, dice, per mettersi in luce con i suoi superiori, per fare carriere insomma.

Ma a senso? È credibile che quel bossolo sia stato messo nell'auto solo per il desiderio di un brigadiere di mettersi in mostra con i superiori?

Scrisse Sandro Provisionato, nel suo libro Giustizia di Sanguinari.

La uno bianco usata dagli assassini di Castel Maggiore è stata trovata dagli investigatori soltanto 36 ore dopo il duplice omicidio ed è stata consegnata la polizia scientifica per le analisi.

Quindi, come e quando Macauda avrebbe messo col bossolo?

Dice l'avvocato Alessandro Gamberini che ha rappresentato l'associazione dei familiari delle vittime della un bianca e ancora oggi si occupa del caso per conto di alcuni parenti delle vittime.

E questo è avvenuto con la complicità dei servizi, con la complicità dei servizi che sono annidati nei carabinieri. C'è una vicenda che riguarda un carabiniere clamorosa che è quella del brigadiere Macauda.

Allora, questa vicenda del brigadiere Macauda è stata liquidata come un depistatore bizzarro che si mette in testa di fare un depistaggio.

Lui non ha mai spiegato tra l'altro fino in fondo perché che vantaggio ne veniva a depistare. Ma la cosa singolare è che è un depistaggio avvenuto in tempi e modi che sono incompatibili con l'idea di un depistaggio fatto e exposto.

E sono invece del tutto compatibili con l'idea di un complice della banda, forse anche di un complice dell'omicidio. Parliamo della vicenda dei carabinieri Stasi e del Riu che vengono uccisi il 20 aprile del 1988.

Secondo l'avvocato Gamberini ci sono circostanze che fanno pensare a tutto tranne che ha un depistaggio organizzato per fare carriera, come sostenne il brigadiere Macauda. Quella storia dice Gamberini non è mai stata chiarita.

Secondo l'avvocato c'è altro che ancora dopo tanti anni non è emerso.

Parlando ancora di Macauda, l'avvocato dice, dice d'avver messo il proiettile sparato dalla sua pistola dietro il sedile, diamo, ripeto, di tempi, come dire, un giorno e mezzo dopo l'omicidio.

E poi collocherà quattro proiettili uguali a quello sparato dalla sua pistola, li collocherà nella casa di un pregiudicato che poi verrà accusato ovviamente dell'omicidio perché quando si scoprirà che i quattro proiettili sono identici a quello trovato nella macchina c'era l'identificazione fatta.

A questa operazione poi comprenderà il fatto che lui lima il cane della sua pistola perché non si possono ricondurre i proiettili alla sua pistola.

Ma guarda caso, emergono due circostanze che non sono state valorizzate. La prima circostanza è una cosa significativa di quadro.

Cioè i carabineri chiedono a tutti i componenti del nucleo operativo dei carabineri di Bologna di dare le armi per fare la verifica sui proiettili e i primi sospettati da parte dell'arma come indagine administrativa sono i carabineri del nucleo operativo, cioè i carabineri ripetano.

Questo è il primo passaggio di cui non si è mai saputo niente e che emerge invece molto significativamente andrebbe spiegato perché i carabineri sospettavano di quelli del nucleo operativo.

Il secondo passaggio, quando Macauda dice di avere messo il proiettile dietro il sedile sparato dalla sua pistola e poi fatto tutta l'operazione del depistaggio, ma c'è un carabiniere che deporrà davanti alla corte d'assise e dice che c'era già un proiettile dietro il sedile di guida.

E quindi la corte d'assise quando sentirà questo carabiniere si accontenterà di dire che forse allora l'ha sostituito.

Non è più un meccanismo solo di un depistaggio, è un meccanismo di uno che prende un proiettile che avrebbe preso un proiettile sparato dagli assassini e mettendoci in un'auto e facendo sparire il proiettile sparato dagli assassini, che è già un'operazione questa un po' diversa dal depistaggio perché è un'operazione che consiste nel cancellare la prova di un omicidio nei confronti dei tuoi commilitoni.

Per tutto il 1988 si alternano rapinei supermercati. Il 19 settembre i banditi si presentano alla Coppa di Viacurial a Forlì.

In pieno giorno mettono una bomba per aprire la cassa forte esterna, quella della cassa continua. Uno dei rapinatori spara verso la gente che scappa. Un altro lancia piccoli ordini. Feriscono tre persone e non rapinano nulla. Uno dei banditi anni dopo dal carcere dirà che quello di Forlì era stato un esperimento.

Il 13 ottobre tocca alla Coppa di Via Massarenti a Bologna. Due guardie giurate stanno caricando l'incasso sul furgone blindato. Si avvicina un uomo vestito male, sembra obbriaco, far fuglia qualcosa.

Una delle due guardie giurate gli dice, dai vai via nonno, è meglio, è tutto il giorno che stiamo lavorando. L'uomo insiste, si avvicina sempre di più alle due guardie. Loro l'intima non l'alta, puntano le pistole.

A quel punto da dietro qualcuno inizia a sparare. Ancora una volta i colpi sono tantissimi. Le due guardie giurate vengono ferite. Un'altra, rimassa al volante del furgone, scappa.

I banditi prendono il sacco con 100 milioni di lire e se ne vanno a bordo di un alfa 33. Non si è mai scoperto se l'uomo che far fugliava e si avvicino alle guardie giurate fosse stato pagato dai membri della banda. Non è mai stato identificato.

Il 12 novembre la banda attacca un'altra cop in viaggiolitti a Pesaro, portano via 159 milioni di lire. Intanto si è impostata un'ipotesi investigativa. A compiere le rapine alle cop sarebbero i cosiddetti pendolari del crimine.

Si tratterebbe di banditi siciliani, precisamente della provincia di Catania, che fanno colpi in trasferta aiutati da complici che vivono al nord. Arrivano, si fermano due giorni, rapinano e poi tornano a casa, in Sicilia.

Il 26 giugno 1989, poco dopo le 22, davanti al supermercato cop di Via Gorki, a Bologna, nel rione Corticella, arriva il furgone e porta valori per ritirare l'incasso.

Una guardia giurata scende e apre la cassa continua. Tre altre guardie giurate si dispongono a Ventaglio, per proteggerlo. Un'altra rimane al volante del furgone.

Da una uno bianca, parcheggiata, scendono due persone, sparano, tutte le guardie giurate cadono a terra. Due sono in condizioni gravissime, ma si salveranno.

La quinta guardia giurata scappa a bordo del furgone. I banditi prendono in sacco con i soldi e a piedi, sparandinaria, vanno verso l'auto.

In quel momento, un uomo di 53 anni, Adolfino Alessandri, gira all'angolo in sella una bicicletta, dice Giampiero Moscato.

Adolfino Alessandri, passante della rapina alla cop di Via Gorki e bel coraggio di dire in bolognese che safeva delinquente, cosa fate delinquenti.

Il lungo della banda tornò indietro, per assassinato non aveva nessun tornacconto, fu proprio un sesto punitivo.

Adolfino Alessandri è stato ucciso con un colpo di fucile Beretta semiautomatico a R70.

Un passante ucciso, quattro guardie giurate feriti due delle quali con riserva di prognosi. Il tragico bilancio della rapina tentata e solo in parte riuscita ieri sera, poco dopo le 22 a Bologna.

Per le danni della cop, Emilia Veneto del quartiere Corticella. Un commando di almeno 5-6 banditi, atteso che un forgone porta valore scortato da una autovettura, si fermasse davanti alla cop per il prelievo dalla cassa continua, nell'incasso del lunedì.

Le quattro guardie giurate del corpo dell'elmetto avevano appena effettuato il prelievo, quando veniva fatto esplodere un ordigno con lo scopo evidente di creare disorientamento.

Quasi contemporaneamente, una pioggia di fuoco si parla di fucile a pompa e di pistole, si abatteva sulle guardie che non avevano il tempo di reagire. I banditi si sono impostessati soltanto di una sacca contenente 38 milioni e sono fuggiti verso la parte posteriore del magazzino.

Qui si sono imbattuti in un ciclista di 53 anni, Adolfino Alessandri, che li ha postrofati con durezza. La reazione dei banditi è stata spietata. Con una spinto lo hanno fatto cadere e quindi lo hanno offredato con un colpo di pistola dicendo, devi morire.

Ciò che si sa di quella banda è che c'è un bandito più alto, lo chiameranno il lungo e uno più basso, il corto, e che uccidere non sembra per loro rappresentare un problema.

Eppure in procura a Bologna c'è chi è convinto che la banda delle copse sia già tutta in carcere. Nel maggio del 1989 il pubblico ministero Giovanni Spinoza aveva firmato la richiesta di 17 ordini di custodia cautelare. Tra loro ci sarebbero stati anche 4 presunti assassini dei due carabinieri di Castel Maggiore.

Tutti i quattro hanno precedenti penali, verranno scarcerati nell'ottobre del 1990. Quell'anno il 1990 si apre con un tentato omicidio.

All'21 del 2 gennaio, in via al Domoro, a Bologna, nei pressi della Fiera, un cittadino di origine marocchina, Dressa Kespi, 22 anni, sta camminando insieme a un suo parente. Si avvicino alla Volkswagen Golf nera con a bordo 4 persone.

Se abbassa il finestreno, spunto una pistola, gli sparano 6 colpi. Il ragazzo resta lungo in coma, ma si salva. Si saprà dopo, grazie alle confessioni, che si è trattato del battesimo del fuoco per uno nuovo della banda.

E' la prima volta che sparano per uccidere al di fuori di una rapina. Lo faranno ancora contro cittadini stranieri e cittadini di Etnia-Rome. Disse uno dei magistrati anni dopo. Se quei criminali avessero potuto scegliere se sparare una persona di carnagione bianca o a una di carnagione mera, avrebbero preferito farlo nei confronti della seconda.

C'entra anche il razzismo in questa storia. Il 15 gennaio, alle 9 del mattino, in 4 tentano una rapina o un ufficio postale di via Emilia Levante a Bologna. È un tentativo assurdo, folle, che ancora una volta non frutterà nemmeno una lira, ma per cui, ancora una volta, viene utilizzata a quella che viene definita una potenza di fuoco sproporzionata, impensabile.

Alle poste a quell'ora c'è già una discreta fila, soprattutto anziani in attesa per ritirare la pensione. Due dei quattro banditi entranno nell'ufficio. Uno mette una bomba all'attezza del vetro che separa gli utenti dagli addetti e poi hurla di stendersi tutti a terra. L'esplosione è fortissima, i feriti sono più di 50. Un uomo di 62 anni supera l'amputazione delle gambe e morirà un anno dopo.

Dentro l'ufficio postale e fuori i banditi sparano con pistole e fucile. Poi scappano, senza riuscire a portarvi a niente, dicendo nella beccaria.

Quando esplode questa bomba fa un morto e 45 feriti. Praticamente un miracolo che non ci siano state più vittime. Peraltro, feriti molto gravi che vengono colpiti da schegge di metallo, di vetro, di legno, che vengono sparati ovunque all'interno dell'ufficio postale. Ci sono feriti di quel fatto che per tutta la vita si porteranno addosso le schegge e le conseguenze di quell'assalto.

Per di più, nel momento in cui i banditi se ne vanno, sparano verso i piani alti dei condomini che stanno intorno a respingere le persone e a farle ritirare all'interno delle proprie abitazioni.

Sono rapinatori e sono assassini. Usano tecniche terroristiche ed astragisti. L'avvocato Gamberini ha una convinzione.

La vicenda d'Uno Bianca si scriva appena titolo nella strategia della tensione. Quindi non solo nella strategia di un gruppo terroristico, lo era già all'epoca in maniera lineare.

Per me l'avvocato dei familiari delle vittime era evidente al punto che io presentai una memoria nella quale evidenziando il fatto che la giurisprudenza consentiva di disgiungere la finalità di terrorismo da quella di eversione.

Non capendo all'epoca se c'erano elementi di eversione, ma sicuramente c'era una finalità terroristica e emergeva, ma ha tutte le azioni che hanno fatto, che sono alcune fatte a questo scopo esclusivo, che il loro scopo era creare panico, creare terrore in questa regione, in questa città, quindi fare degli atti che avevano questa finalità.

La finalità di terrorismo non è mai stata contestata, questo è un altro degli elementi inquietanti di questa vicenda, perché il PM che prese in mano nel 1994 la vicenda, quando ci fu la scoperta della banda, non intese farlo e è uno dei tanti elementi che fa capire come si sia voluto stendere rapidamente un velo di silenzio su possibili approfondimenti.

Dal 25 gennaio al 13 settembre 1990 la banda compie 10 rapine, tre case le autostradali, due supermercati e cinque distributori di benzina, hanno scoperto che le rapine e i distributori sono abbastanza facili e comportano pochi rischi.

I sei ottobre uccidono ancora, con lucidità e senza alcun motivo. Sono le 1935 Bologna via Zanardi, quartiere lame. C'è un uomo che sta camminando, si chiama Gilberto Bonafé, da dietro arrivano due uomini, hanno il Passamontagna.

Li puntano contro una pistola 38 Special e una 357 Magnum. Dicono d'acce Borsello, qui ci scappa il morto. L'uomo corre verso un negozio, un tabaccaio ancora aperto.

Li sparano al braccio sinistro, lui si ferma e stringe il braccio, uno di due li si piazza di fronte e gli spara a linguine. Poi i due rapinatori entrano nel negozio, prendono i soldi della cassa e se ne vanno.

Fuori, sull'ato opposto della strada, c'è un uomo e fermi in auto, vedi tutto. Si chiama Pino Zecchi e lì perché sta aspettando la moglie e la figlia che sono state in gita aziendale in Svizzera. Il Pullman le riporterà in quel punto.

Pino Zecchi prende una penne e un foglietto dal vano del cruscotto scende dalla sua auto e grida alle persone affacciate. Chiamate il 113, chiamate il 113.

Intanto annota il numero di targa dell'auto, una fiat 1 grigio chiara su cui i banditi stanno risalendo. Da una finestra qualcuno grida va da via svelto, lui risponde se si prendo solo il numero di targa.

Uno dei banditi sente, si gira e lo vede. Torna indietro. Intanto Pino Zecchi è risalito in auto. Il bandito si avvicina, lo prende per il Bavero, lo fa scendere, gli spara due colpi alla testa. Lo uccide per punirlo per mostrare a tutti ancora una volta che nessuno si può mettere contro la banda.

L'auto, quella 1 grigia, era rubata. Il fatto che primo Zecchi avesse annotato la targa non aveva nessuna importanza. Quella macchina sarebbe stata comunque abbandonata poco dopo.

Eppure l'hanno ucciso. Arriva il pulmo anche e torna dalla gita. Racconterà, intervistata da Rai 2, Rosanna Zecchi, moglie di primo, che diventerà poi Presidente dei familiari delle vittime della 1 Bianca.

Quando siamo arrivati abbiamo visto una grande confusione. Tutti chiedeci, ma cosa è successo? Ci sono macchine di polizia. C'è di tutto e di più.

Proprio dal pulmo abbiamo visto questo lenzuomolo con qualcuno sopra. C'è stata anarapina.

A quel punto mia figlia come già mamma non vedo papà, allora c'è un signore lì. Ma come si chiama tuo padre? Zecchi primo dice allora quello che è stesso per te.

Il 10 dicembre alle 19, una fiat 1 Bianca, con 3 o 4 persone a bordo, si ferma davanti al Camponomandi di Santa Caterina di Quarto. Ne scendono due persone che sparano con l'AR 70 e una pistola a revolvere.

Sparano su tutte le persone che vedono. Ne feriscono 9.

12 giorni dopo, verso le 13, nel Piazzale dell'Ipercop di Via Alcide de Gasperi a Bologna, sparano contro due cittadini tunisini. Losin Belgurk e Josef Munafdif entrambi sono feriti.

Il giorno dopo, alle 8.20 del mattino, una 1 Bianca arriva davanti a un altro Camponomandi, in via Piero Gobetti. Scende una sola persona, altre due restano a bordo.

Spara con l'AR 70, muore Rodolfo Bellinati, 27 anni, che sta caricando del materiale sulla sua Apecara. Muore anche Patrizia della Santina, 34 anni, che è raggiunta da un proiettile dentro la sua roulotte.

Alle 17.15 del 27 dicembre, due uomini a bordo di una 1 Bianca entrano in un distributore esso di Castel Maggiore.

Il corto rimane fuori, appoggia il fucile sul tettuccio dell'auto e tiene sottotiro le persone nel Piazzale.

Il lungo entra nel distributore, si fa consegnare tutti i soldi, poi spara al titolare e lo ferisce

C'è un uomo che ha visto tutto. Si chiama Luigi Pasqui, a 50 anni era lì per lavare l'auto. Il bandito gli spara e lo ammazza.

Poi due risalgo nel auto, con calma vanno verso Trebo di Reno, dove hanno lasciato un altro auto.

Gli spara alla testa e lo uccide. Quando quella sera c'essano gli spari, ci sono due morti a un ferito, che si vanno ad aggiungere a un elenco che è già lungo.

Subito dopo una delle rapine a un supermercato cop, a Pesaro nel 1988, venne di ramato un'allerta. I banditi sono a bordo di un reno di ciotto grigio metallizzato.

C'è un uomo che ha visto come due erano i rapinatori della cop. Il finestrino dell'auto si abbassa, i carabinieri chiedono i documenti. L'uomo alla guida prende il portofoglio, ma invece della patente della carta di identità dà al carabiniere un tesserino.

Poi il carabiniere dice, sapete c'è stata una rapina. L'uomo alla guida risponde, abbiamo saputo. I carabinieri facendo ai due di andare. L'auto riparte se ne va.

Prima che ascoltate la seconda parte di questa storia, vi chiedo qualche istante di pazienza per dirvi una cosa importante su questo podcast. Se ascoltate indagini ogni mese, forse avrete imparato a conoscere e da apprezzare le cose che lo rendono diverso da molti altri podcast che si occupano di storie simili.

Cerchiamo di usare un linguaggio semplice e chiaro e di spiegare sempre anche le cose più complicate. Ci sforziamo di stare alla larga da ogni sensazionalismo. Indagini è il frutto di questo approccio, lo stesso che da 13 anni distingue il lavoro del post, il giornale online che produce indagini e senza il quale, forse, un podcast come indagini non ci sarebbe.

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Avete ascoltato la prima parte della nuova storia di Indagini sulla banda della Uno Bianca. Trovate già la seconda parte sull'app del post e su tutte le principali piattaforme di podcast.

Indagini è un podcast del post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.

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Iniziò tutto lungo l’autostrada A14, la notte del 19 giugno 1987. Una Fiat Regata si fermò al casello di Pesaro. Scesero due rapinatori e puntando i fucili a pompa contro l’addetto al casello si fecero consegnare 1 milione e trecentomila lire, circa 1.500 euro di oggi. A quella prima rapina ne seguirono molte altre, lungo l’autostrada A14. Poi i banditi passarono agli uffici postali, ai supermercati Coop e quindi alla banche. Rapinarono in Emilia-Romagna e nelle Marche. Qualche mese dopo iniziarono a uccidere: in sette anni quella banda uccise più di 20 persone, ne ferì più di 100, compì almeno 103 azioni criminali.
Uccisero per denaro ma anche senza nessun motivo. Uccisero persone inermi che avevano osato mettersi sulla loro strada, e uccisero per razzismo.
Quel gruppo di criminali è diventato famoso come la banda della Uno Bianca.
Le indagini furono ostacolate da depistaggi, sviste, noncuranze, incomprensioni. Ma anche dal fatto che nessuno poteva immaginare chi fossero davvero quei criminali. Li arrestarono nel novembre del 1994. Cinque di loro erano poliziotti in servizio in Emilia-Romagna.
In molti pensano ancora oggi che non tutto sia stato scoperto. Che i banditi della Uno Bianca abbiano goduto di coperture e che i servizi segreti dell’epoca abbiano avuto un ruolo nella vicenda.
Dopo una sanguinosa rapina in un’armeria di Bologna, in questura venne appeso l’identikit di uno degli assassini. Quell’identikit era identico al volto di Roberto Savi, uno dei poliziotti che tre anni dopo venne arrestato. Nessuno notò quella somiglianza. O forse nessuno volle notarla.

Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.