Il Mondo: Cosa prevede l’accordo tra Europa e Tunisia per fermare i migranti. In Messico due giornalisti sono stati assassinati in una settimana.

Internazionale Internazionale 7/18/23 - Episode Page - 29m - PDF Transcript

Dalla redazione di Internazionale io sono Giulia Zoli, io sono Claudio Rossi Marcelli e questo

è il mondo, il podcast quotidiano di Internazionale.

Oggi vi parleremo di migranti in Tunisia e di giornalisti in Messico e poi di Bologna

e di un fotografo italiano.

È martedì 18 luglio 2023.

Il periodo europeo è in Tunisia e gliela di essere qui con il Prime Minister Giorgia Minoni

e il Prime Minister Mark Ruta.

Siamo qui con noi, su Juni 11, per offrire un nuovo partner con Tunisia e oggi,

dopo un mese, vi trattiamo.

Prima di aver visto il signo del memorandum di comprensione, su una strategica e comprensiva

partnerazione, i nostri team hanno lavorato molto bene e voglio ringraziare a loro per

farlo rapidamente in un packo forte.

Questo è un investimento in nostra prosperità, stabilità e in future generazioni.

Il 16 luglio, l'Unione Europea e la Tunisia hanno firmato un accordo che ha lo scopo di

aiutare economicamente la Tunisia e allo stesso tempo di limitare l'immigrazione irregolare

in partenza verso l'Europa.

La voce che avete sentito è quella della Presidente della Commissione Europea Ursula

Fonderlaien, che insieme alla premia italiana Giorgia Meloni e il premia rolandese Mark

Ruta, ha firmato l'accordo con il Presidente Tunisino Kais Syed.

Per Bruxelles si tratta di un patto strategico, visto che il tema della migrazione è al centro

della sua agenda e che il rapporto con la Tunisia è un aspetto cruciale della questione.

Ne parliamo con Annalisa Camilli, giornalista d'internazionale esperta di migrazioni.

Il memorandum d'intesa tra Tunisi e Bruxelles è un testo molto generico in realtà, parla

di una cooperazione economica e commerciale, di un approccio olistico alla migrazione di

porre rimedio alle cause profonde dell'immigrazione irregolare.

L'Unione Europea si impegna con Tunisi dopo settimane di negoziati, a fornire un sostegno

economico per sostenere l'economia del Paese, ricordiamo che la Tunisia rischia il default

intro agosto e quindi si impegna dare subito 150 milioni di euro per sostenere l'economia

del Paese e poi altri 900 milioni di euro vincolati al prestito del Fondo Monetario

Internazionale, in cambio di un controllo molto stretto delle frontiere, perché sappiamo

che questa è la vera poste in gioco per Bruxelles, da una parte evitare sicuramente

il default e la crisi, una crisi ancora più profonda della Tunisia, ma soprattutto la

riduzione degli arrivi dalla rotta Tunisina.

L'Unione Europea secondo te cosa spera di ottenere, cioè qual è il senso di questo

accordo?

Da una parte l'Europa si è esposta molto nel voler garantire che KSYED sia un interlocutore

che può essere ritenuto affidabile e lo sta facendo per favorire l'intervento del Fondo

Monetario Internazionale perché vuole evitare a tutti i costi che la Tunisia sprofondi,

in una crisi economica ancora più complicata di quella che già sta vivendo, questo per

mantenere una situazione di stabilità in una regione che è già profondamente instabile

e sicuramente per controllare i flussi migratori, perché certamente in Europa che politicamente

si sta spostando a destra, tutti i governi si stanno spostando a destra e hanno come

priorità.

Ricordiamo che Giorgia Meloni ha vinto le elezioni con l'idea del blocco navale,

non quindi di fermare radicalmente le partenze, invece quest'anno sono già arrivati 75.000

persone via mare, nonostante gli accordi e nonostante l'approccio molto restrittivo

delle politiche italiane sull'immigrazione, quindi in questo senso gli ultraconservatori,

l'estrema destra ci sta un po' perdendo la faccia.

E l'accordo che è stato raggiunto riflette queste esigenze europee e anche quelle tunisine,

cioè è un successo?

In realtà per settimane l'Unione europea ha trattato su uno dei punti che per l'Unione

appunto era molto importante, cioè che la tunisia accettasse di aprire dei centri dei

campi in cui riprendere, in cui trasferire, in cui deportare anche migranti di origine

non tunisina, quindi non solo di accettasse i rimpatri di cittadini tunisini, ma anche

di riprendere persone partite dalla tunisia, ma con nazionalità non tunisine.

Su questo, scritto abbastanza chiaramente nel memorandum, Sayed ha detto no, quindi

uno dei punti fondamentali che era quello un po' come con la Turchia, di riprendere

indietro gli stranieri, i migranti che arrivano dalla tunisia anche se non sono tunisini,

su questo Sayed ha detto molto chiaramente che non accetterà di aprire questi centri

e non accetterà, ha fatto scrivere nel memorandum, di fare da guardia di frontiera, di altre

frontiere che non siano quelle tunisine, intendeva appunto di non accetterà queste forme di

politiche di esternalizzazione.

Chi sono i migranti che tranzitano per la tunisia, quindi che arrivano da altri paesi

e come vengono accolti e trattati in tunisia?

In passato la rotta tunisina era percorsa soltanto da cittadini tunisini che si autoorganizzavano

con delle piccole embarcazioni arrivavano in Italia, negli ultimi due anni e in particolare

nell'ultimo anno, nel 2023 invece questa rotta è percorsa massicciamente da migranti subsariani,

molti di loro erano residenti in tunisia e però sono stati spinti diciamo a lasciare

il Paese in seguito a un'ondata xenofoba, anche dovuta a una propaganda molto forte

abbracciata dal governo di Kays Said che li ha accusati di essere in qualche modo la causa

della crisi economica del Paese, ha parlato addirittura di sostituzione etnica, del tentativo

di cristianizzare un Paese musulmano come la tunisia e quindi soprattutto c'è stato

un discorso molto aggressivo verso i migranti a partire dalla fine di febbraio di Kays Said

e da quel momento le aggressioni contro i neri e contro la comunità straniera subsariana

che era residente in tunisia sono aumentati in maniera impressionante.

In questi giorni abbiamo perfino sentito parlare di trasferimenti forzati verso il confine

di cittadini non tunisini che sta succedendo in questo momento?

Queste forme diciamo di espulsione, di deportazione verso le ali e deserti che ci sono sempre state

ma non in queste dimensioni.

Negli ultimi giorni appunto a partire dal 2 luglio nella seconda città del Paese Sfax

ci sono state delle retate fatte dalla polizia tunisina nei quartieri più abitati appunto

da migranti subsariani che sono stati arrestati in alcuni casi anche malmenati, picchiati

e poi trasferiti in delle zone appunto di frontiere in particolare in una zona desertica

al confine tra tunisia e Libia a 150 km da Tripoli quindi proprio davvero al confine

con la Libia oppure al confine con l'Algeria e queste persone tra cui anche persone che

avevano già lo status di rifugiato, una forma di protezione internazionale oppure

minorenni, minori bambini, donne in cint sono stati appunto trasferite e abbandonate nel

deserto senza acqua, senza cibo, senza nessuna forma di riparo con queste temperature proibitive

di questi giorni.

Addirittura la notizia appunto del 17 luglio è che i libici gli hanno soccorsi quindi

siamo nel paradosso per cui sono i libici considerati appunto tutt'altro che degli

umanitari e tutt'altro che affidabili ad aver anche per ragioni di propaganda soccorso

i migranti appunto al confine per denunciare appunto le politiche del governo tunisino

e hanno detto appunto che sono in aumento queste persone abbandonate nel deserto perché

in tutto questo il governo tunisino ha negato di aver fatto queste retate che secondo le

organizzazioni internazionali e le organizzazioni umanitari riguarderebbero 1200 persone a

partire dal 2 luglio.

L'Europa come si pone nei confronti di questa emergenza?

L'Europa in questo momento di fatto non ha preso parola, non ha commentato queste espulsioni

di massa, queste reportazioni di massa che sono un po' un cambiamento di scala, mostrano

come appunto l'autonisiano possa essere considerata un paese sicuro e sia invece un paese in

cui le persone straniere sono sottoposte a violazioni profonde dei diritti fondamentali

però mentre appunto era in corso questo negoziato e poi questo accordo per il memorandum

l'Europa di fatto non ha preso parola, non ha condannato queste deportazioni e queste

violazioni.

La premia in ritaliana Giorgio Ameloni è stata in prima linea in questi negoziati

con la tunisia.

Qual è al momento il ruolo dell'Italia in questa fase?

L'Italia dal principio ha voluto ritagliarsi questo ruolo di mediazione infatti appunto

Giorgio Ameloni, commentando il memorandum d'intesa, ha espresso grande soddisfazione

e lo ha presentato anche come un risultato personale, è vero nel senso che dal principio

lei si è esposta in prima persona in quella che lei ha definito questa nuova strategia

rispetto al nord africa e in realtà sappiamo che è una vecchia strategia, per esempio

è stata la strategia di Marco Minniti nel 2017 rispetto alla Libia, quella di fare accordi

con i paesi del nord africa per fermare le partenze verso l'Italia e verso l'Europa.

Ma in effetti Ameloni si sta ritagliando questo ruolo di mediazione tra paesi dell'Unione

europea che hanno una linea più morbida rispetto all'immigrazione più aperta e paesi che invece

hanno una posizione di chiusura storicamente come Lungheria, la Polonia, ma anche i paesi

bassi di Mar Crutte.

Sta un po' assumendo quello che è stato negli anni della cosiddetta crisi dei rifugiati,

il ruolo che è stato di Angela Merkel e questo ci dice però che l'asse dell'intera

unione europea si sta spostando a destra, se in passato la grande mediatrice sulla migrazione

era una cristiano democratica come Angela Merkel e oggi invece un esponente della destra

più estrema come Giorgia Ameloni che però non ha le posizioni più estreme, si pone

come mediatrice.

È interessante che questo Team Europe come si sono definiti, cioè la Presidente della

Commissione europea Ursula von der Leyen, Giorgia Ameloni, la premia ritaliana e poi

il Presidente del Consiglio di Missionario l'Olandese Marc Crutte infondo Ameloni rispetto

a Rutte è quella con le posizioni più moderate, perché Marc Crutte è di missionario, il suo

governo è caduto proprio sulle questioni migratorie perché aveva delle posizioni lui stesso,

il transiste, voleva impedire i ricongiungimenti familiari rifugiati che già vivono nei paesi

bassi e proprio su questa misura è caduto il governo di Rutte, quindi Ameloni appare

una moderata in un'Europa che va sempre più a destra.

Grazie Anna Risa Camilli.

Grazie a voi.

Carlo Ciurlo, editor d'Italia d'Internazionale racconta un articolo dell'ultimo numero.

In un paese sempre più vecchio e chiuso in se stesso in cui l'estrema destra agita

allo spettro del declino, Bologna offre un'alternativa giovane, aperta e collettiva.

Questo articolo del quotidiano francese Le Monde, che pubblichiamo questa settimana

su Internazionale, racconta come il capo luogo dell'Emilia Romagna, resti comunque un baluardo

per la tutela dei diritti, soprattutto dopo l'arrivo al governo di Giorgia Meloni, la

leader di Fratelli d'Italia.

La resistenza di questa città è il frutto del lavoro delle associazioni cittadine

che si battono per rendere Bologna sempre più inclusiva, all'avanguardia nelle battaglie

politiche e sociali.

Non è un caso che il comune abbia concesso la cittadinanza onoraria ai minori stranieri,

una misura simbolica in un paese in cui la cittadinanza si ottiene soprattutto per nascita

e non perché si risiede da tempo in quel territorio.

La resistenza di Bologna è uno degli articoli sull'ultimo numero di Internazionale.

Il periodista mexicano Nelson Matus fu assassinato a balazzo nel sabato, nel puerto turistico di

Acapulco, al sur del paese.

Matus è il secondo periodista in attività assassinato in una settimana in Mexico, considerato

uno dei paesi più peligrosi nel mondo per gli comunicatori.

Era direktor del Portal de Noticias, lo reale di Guerrero, che informa sovre la violenza.

Fu evaleato quando si disponia a bordare su automobile nel stazionamento di una tienda.

Las autoridades iniziarono una investigazione per il delito di homicidio calificato con

arma de fuego.

Il 15 luglio Nelson Matus, direttore del giornale online mexicano, lo reale di Guerrero, è

stato assassinato da Acapulco, nello stato occidentale di Guerrero, in Messico.

Solo una settimana prima, Luis Martín Sanchez de Niguez, corrispondente della jornada, uno

dei principali quotidiani del paese, era stato ucciso nel Ayarit, un altro stato dell'agosto

occidentale.

Due homicidi che confermano che il Messico è uno dei paesi più pericolosi del mondo

per i giornalisti.

Ne parliamo con Ylenia Sina, giornalista freelance che colabbra con Internazionale e

che da anni si occupa di Messico.

Il 15 luglio scorso, nello stato di Guerrero, è stato ucciso, un giornalista messicano Nelson

Matus.

È stato ammazzato a colpi di pistola da due sicari mentre era nella sua automobile.

Questa notizia segue di pochi giorni l'omicidio di un altro giornalista messicano che ha

venuto l'8 luglio a Tepic, capo luogo dello stato di Ayarit, nella parte ovest del Messico.

Si chiamava Luis Martín Sanchez in Niguez.

Il suo corpo è stato trovato senza vita all'interno di un sacco di plastica e con evidenti segni

di tortura.

Aveva 59 anni, era un giornalista da più di 30 anni ed era un corrispondente di uno

dei principali quotidiani messicani, La Cornada.

Secondo la Procura Generale di Giustizia dello Stato, il suo omicidio è legato alla sua

attività giornalistica.

Il suo corpo, oltre a riportare segni di tortura, è stato trovato anche a fianco di un cartello

con un messaggio che collegherebbe appunto il suo omicidio al suo lavoro.

Un altro elemento che rafforza questa tesi è rappresentato dal fatto che la moglie,

che aveva denunciato la scomparsa tre giorni prima, aveva raccontato anche che insieme

a lui erano spariti il computer, il telefono e un disco rigido.

Nelle stesse ore, altri due giornalisti locali, Jonathan Laura Ramirez e Osiris Maldonado

della PAF, sono stati sequestrati da uomini armati e poi sono stati liberati in buone condizioni

di salute.

Secondo le prime indagini, è possibile che i tre cronisti avessero dei legami professionali.

Secondo lo NG, il reporter sanfrontiere, il Messico è uno dei paesi più pericolosi

del mondo per i professionisti dell'informazione, ma di che numeri parliamo quando parliamo

di violenza contro i giornalisti in Messico?

Sì, il Messico è uno dei paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti e in molti anni

si è rivelato ancora più letale dei paesi in guerra.

Secondo reporter sanfrontiere, nel 2022 sono 11 i reporter che sono stati uccisi e nonostante

si rischia di fare un paragone fuori luogo dal momento che si tratta di vite umane,

nello stesso periodo di tempo in Ucraina ne sono stati uccisi 9.

Sempre, secondo la stessa organizzazione dal 2000 a oggi, sono circa 150 giornalisti uccisi

e 28 quelli scomparsi.

Il 2022 è stato un anno particolarmente letale per i giornalisti in Messico, nel 2023 ne

sono registrati in media di meno, le cifre sono ancora da consolidare, qualcuno sostiene

che siano due, altre organizzazioni ne hanno registrato solo uno, altri invece cinque.

Questo dipende dalle indagini, come dicevamo prima, che sono in grado di dimostrare che

gli omicidi o i femminicidi sono legati al lavoro giornalistico.

Questa violenza è legata a diversi motivi, a diverse cause.

Il primo sicuramente è il fatto che la violenza è diffusa a livello generale nel Paese.

I giornalisti raccontano una realtà violenta e spesso risultano scomodi proprio perché

svelano informazioni scomode e si ritrovano un po' nel mezzo.

È importante considerare il fatto che l'aumento delle aggressioni e delle uccisioni nei confronti

del giornalisti è iniziato più o meno nel 2006, quando è cominciata la guerra anacotraffico

voluta dall'allora Presidente Felipe Calderon, soprattutto negli Stati del Nord, la dove

la criminalità era più forte.

Poco a poco, quando la violenza ha toccato tutto il Paese, il problema appunto si è diffuso

e oggi riguarda praticamente tutti gli Stati del Paese, in alcuni sicuramente il fenomeno

è più grave.

Se prima le aggressioni alla stampa arrivavano soprattutto da soggetti della criminalità

organizzata, oggi datici dicono che amminacciare e aggredire i giornalisti sono soprattutto

agenti delle forze dell'ordine, in particolare quelle locali e municipali e funzionari pubblici.

L'ultimo elemento che mantiene alta la violenza nei confronti del giornalista in Messico invece

è l'assenza di indagini.

Praticamente la totalità, il 99% delle uccisioni dei giornalisti rimane impunita.

Dopo l'omicidio di Inighez, la Cornada, il giornale dove lavorava, ha denunciato in

un'editoriale un attacco a tutta la società per impedire agli abitanti dello Stato di

conoscere verità scomode.

A chi dava fastidio il lavoro di Inighez o quello di Matos, cosa hanno raccontato questi

giornalisti e a che vuole metterli a tacere?

Nei due case che citi, solo le indagini potranno dire quali erano le informazioni scomode e

per chi sono stati scomodi questi giornalisti, anche se, vista le percentuali alte di impunità,

penso che sarà più il lavoro dei colleghi e il lavoro delle organizzazioni della società

civile che ci diranno con il tempo su che cosa stavano lavorando questi giornalisti

e perché sono diventati scomodi per qualcuno e per chi sono stati scomodi in particolare.

D'alcuni elementi che sono emersi, per esempio, in Inighez negli ultimi giorni per la Cornada

aveva pubblicato alcuni articoli che riguardavano il sequestro di alcune proprietà dell'ex governatore

dello Stato da parte della Procura Generale di Nayarit.

Quindi non è detto che mai sapremo perché Sanchez e Inighez è stato scomodo, dovremmo

aspettare sicuramente un po' di tempo.

L'omicidio di Inighez ha colpito molto il Paese perché era un corrispondente della

Cornada e questo ricorda altri casi che hanno turbato molto la popolazione e che vengono

ricordati ancora oggi, come quelle di Mirosa Lavabrich, Regina Martínez o Javier Valdez.

Non bisogna, infatti, dimenticare che quando viene ucciso un giornalista non viene colpita

solo la famiglia o appunto la vita del giornalista, ma anche tutta la società che non avrà più

accesso alle informazioni che quel giornalista avrebbe potuto fornirli.

In base alle interviste che ho potuto fare in Messico e alle testimonianze che ho raccolto,

le informazioni sono il motivo principale per cui un giornalista diventa scomodo all'interno

di una società e diventa scomodo per quanto riguarda gli interessi dei gruppi criminali

ma anche politici e imprenditoriali, spesso in Messico è molto difficile riconoscere

il confine tra queste realtà.

Spesso chi detiene il potere, siano gruppi criminali, politici o imprenditoriali, cerca

di comprare il lavoro del giornalista per fare propaganda, per mandare messaggi agli

avversari o anche semplicemente per controllare le informazioni che circolano e influenzarle.

Quindi spesso chi non accetta di collaborare viene ucciso ma mi sento di dire che anche

chi accetta di collaborare spesso muore perché ormai fa parte di uno schieramento e quindi

entra direttamente all'interno di questi scontri che poi portano la violenza.

La società d'intera americana de Prenza, un'organizzazione che difende ai giornalisti

nelle americhe, ha detto che il governo messicano deve garantire protezioni immediata ai giornalisti

che lavorano nel paese.

Con l'elezione nel 2018 di Manuel López Obrador, un presidente progressista, la situazione

è migliorata?

L'Opez Obrador aveva vinto le elezioni del 2018 anche grazie alla promessa di cambiare

strategia per arginare la violenza nel paese, invece oggi i dati ci dicono non solo che

la violenza in generale non è diminuita, ma non è diminuita nemmeno quella nei confronti

dei giornalisti.

Secondo dati diffusi in autunno d'articolo 19, le aggressioni giornalisti nel 2022 sono

aumentate dell'85% rispetto a quelle che sono state registrate con il predecessore

Enrique Pena Nieto.

Anche se le cause del problema sono state ereditate dal passato, alcune realtà della

società civile hanno puntato il dito contro la comunicazione di Obrador che è considerata

molto stile nei confronti della stampa.

Significativo in questo senso è l'iniziativa della conferenza stampa mattutina che il presidente

tiene ogni giorno chiamata mania nera, in particolare una rubrica intitolata Chieneskien

della mentiras, che la traduzione sarebbe chi è che mente, durante la quale un rappresentante

del governo smonta e smentisce soughti i contenti dei articoli, definendo

e accusando gli giornalisti di essere giudici di essere al servizio dell'opposizione.

Ovviamente questa non è la causa della violenza contro i giornalisti in Messico, ma è una fonte di grande

preoccupazione per chi si occupa del tema, perché molti pensano che questo atteggiamento esponga

ancora di più la categoria legittimando gli attacchi e alimentando un clima di sfiducia

verso i mezzi d'informazione.

Il rischio collegati al mestiere di giornalista, le minacce e giornalisti rischiano di indebolire l'informazione

in Messico.

Questa il sistema dell'informazione? Da un lato, è innegabile che le minacce, le agressioni, le uccisioni

dei giornalisti sono come una bomba nel cuore di una società democratica. La paura rende difficili

a volte impossibile il lavoro dei giornalisti che spesso cambiano lavoro o si autocensurano raccontando

solo notizie che non danno fastidio a nessuno.

Per esempio, in Messico è stata connata una definizione la zona del silenzio ed è utilizzata

per quei territori in cui il controllo dei mezzi d'informazione da parte di chi detiene

il potere.

Mettiamola così, sia esso punto criminale, politico e imprenditoriale, è quasi totale,

con i principali mezzi d'informazione che sono completamente coptati e giornalisti

indipendenti che o rischiano la vita o decidono di smettere di fare il loro lavoro.

Nonostante questo l'ultima volta in cui sono stata in Messico ho raccolto le testimonianze

di davvero tantissimi colleghi che hanno deciso di continuare a informare e di continuare

a farlo in modo indipendente.

Penso alla rete periodista sdapie che, tradotto in italiano, significherebbe giornalisti

di strada che è nata nel 2007 e quindi è nata proprio nel momento in cui le violenze

nei confronti del giornalisti stavano aumentando e che quindi ha seguito questa situazione fin

dall'inizio.

Una delle fondatrici un giorno mi ha raccontato, eravamo nati per raccontare la situazione

sociale del Paese e ci siamo ritrovate a fare le reporter o i reporter di guerra.

O per esempio nel 2018 sempre legato a periodista sdapie è nata un'allianza dei medios, un'alleanza

tra diversi mezzi d'informazione che riunisce più di 15 siti locali in tutto il Paese.

Questi giornalisti si sono organizzati cercando di proteggesti tra di loro, condividendo

le informazioni.

Spesso mi hanno raccontato che pubblicano la stessa notizia nello stesso giorno in più

giornalisti per evitare di diventare un bersaglio.

Cechi mi ha raccontato che per esempio in Messico l'esclusiva soprattutto per i giornalisti

di Cronaca che devono andare fisicamente nei posti è finita perché è troppo pericoloso

e quindi bisogna per forza muoversi in gruppo.

Cechi decide di vivere in un posto diverso rispetto a quello in cui lavora in modo tale

da recarsi sul posto solo per verificare le informazioni e poi tornare in un altro luogo

che di solito è città del Messico molto più sicuro per la sua incolumità.

Quindi sì, da un lato la violenza nei confronti dei giornalisti colpisce profondamente la società

democratica messicana ma mi sento di dire che ci sono tantissimi colleghi che continuano

a fare il loro lavoro.

Grazie Elena Sina.

Grazie a voi.

Rosi Santella, fatto editor di Internazionale, consiglia una mostra a Roma.

Al Museo Maxi di Roma fino al 1 ottobre si può visitare la mostra Mario Cresci, un esorcismo

del tempo.

Nel grande spazio in cui è allestita, tra pedane, curve e gradini, ci si immerge in

più di 400 opere, materiali d'archivio e documenti che raccontano vent'anni di lavoro

che Cresci ha realizzato in Basilicata tra il 1967 e gli anni 80.

Cresci è uno dei maestri della fotografia contemporanea che ha saputo integrare la

riflessione sul valore estetico del linguaggio fotografico con la ricerca sul campo, l'interesse

antropologico e l'impegno sociale.

La sua è un'esperienza artistica unica di un grande sperimentatore.

Infatti Cresci sostiene che il mezzo fotografico sia un pretesto per aprire la mente alle

contaminazioni tra i linguaggi dell'arte e della scienza, un modo per immaginare altre

visioni e altre vite.

La Mostra a Roma si apre con la serie dedicata a Matera e lo sfollamento dei suoi sassi.

Poi si arriva a Tricarico, un piccolo borgo in cui era stato chiamato a fotografare i

lavori per il piano regolatore del comune e dove realizza la famosa serie della bimba

di Tricarico.

Tra le sezioni più interessanti c'è quella dei collage in cui fotografia e grafica interagiscono

in maniera esplicita e non si smetterebbe mai di guardare la serie dei ritratti reali

in cui uomini, donne e bambini posano nelle loro case tenendo in mano vecchie foto di

famiglia.

Un modo per riflettere su come le immagini e gli oggetti possiedano la capacità di relazionarsi

con la storia e la memoria.

Mario Cresci, un esorcismo del tempo, al maxi di Roma fino al primo ottobre.

Dalla redazione di internazionale, progetto è tutto.

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Il 16 luglio l’Unione europa e la Tunisia hanno firmato un accordo che ha lo scopo di aiutare economicamente Tunisi e di limitare l’immigrazione irregolare. Il 15 luglio, a una settimana dall’omicidio di Luis Martín Sánchez Íñiguez, corrispondente della Jornada, è stato assassinato ad Acapulco Nelson Matus, direttore del giornale online Lo Real de Guerrero.

Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale
Ylenia Sina, giornalista

Tunisia: https://www.governo.it/it/articolo/meloni-von-der-leyen-e-rutte-tunisia/23153
Messico: https://www.youtube.com/watch?v=Eh4HgSdmojs

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Consulenza editoriale di Chiara Nielsen.
Produzione di Claudio Balboni, con Vincenzo De Simone.
Musiche di Tommaso Colliva e Raffaele Scogna.
Direzione creativa di Jonathan Zenti.