Fare un fuoco: I confini dell’io: Milan Kundera su Francis Bacon

Lucy - Sulla cultura Lucy - Sulla cultura 3/10/23 - Episode Page - 15m - PDF Transcript

Ci sono artisti le cui opere esercitano su di noi un'attrazione oscura ma irresistibile.

Francis Bacon, ad esempio, difficile non essere affascinati da lui o da Lucian Freud o da

Baltus. In un'epoca che sembrava voler voltare le spalle al figurativo, la forza di questi

maestri delle figure, maestri del ritratto, maestri dei corpi ambigui martoriati resta

intatto, continua a parlarci, a interrogarci. Prendiamo a Francis Bacon. Ritroviamo ancora

oggi nei suoi corpi stravolti qualcosa che ci riguarda, qualcosa che attraverso il destino

desolante dei corpi che quello di disfarsi, di crollare, di svanire, parla anche al nostro

spirito. Ma perché di preciso Francis Bacon ci affascina in modo quasi molesto? Sono molti

grandi autori che hanno provato a spiegarlo. Tra di loro vorrei provare a convocare qui

con noi intorno al fuoco Milan Kundera, che su Bacon ha scritto pagine molto profonde.

Io sono Nicola la gioia e questo è fare un fuoco, il podcast di Lucy che racconta come

le storie continuano ad accendere la nostra immaginazione.

Tra gli autori che si sono accostati all'arte di Francis Bacon, come dicevo, c'è Milan

Kundera. Me ne sono ricordato proprio ieri mentre provavo per l'ennesima volta a fare

ordine nella mia caotica libreria. Stavo cercando un libro e ne ho trovato un altro.

Insomma, mi è venuta in soccorso la regola del buon vicino di cui parlava Abbi Warburg.

La libreria ideale, diceva Warburg, deve essere ordinata non in ordine alfabetico, ma in

modo tale che quando cerchi un libro finisci per trovarne sempre un altro che però scopri

ti interessava di più. Che nel mio caso è un'ottima scusa per il disordine.

Ma insomma, stavo cercando un vecchio numero di Dilan Dog e mi sono ritrovato fra le mani

un libro, edito in Italia da abscondita in cui Francis Bacon parla della sua arte, corredato

da uno scritto di Milan Kundera. Mi sono soffermato a leggere, non ricordavo

più nemmeno se l'avessi già letto, ma tutto mi sembrava un tratto nuovo e illuminante.

E così, dal momento che Milan Kundera ha deciso di negarsi al mondo, di non concedere

più da anni interviste, di non fare più uscite pubbliche, beh, possiamo chiamarlo

qui intorno al fuoco e chiedergli di parlarci un po' di Francis Bacon, maestro di forme,

di informe e di corpi martoriati. Mi piace l'idea di convocare ogni tanto

qui con noi qualche maestro, cedo allora idealmente la voce a Milan Kundera che ci farà da guida

per questa lezione su Francis Bacon. I ritratti di Bacon di seconda mettono in

questione i limiti dell'io, fino a che grado di distorsione un individuo rimane se stesso,

fino a che grado di distorsione un essere amato rimane un essere amato. Per quanto

tempo un volto caro che si allontana a causa di una malattia, della follia, dell'odio

o della morte, resta ancora riconoscibile, dove, posto, il confine superato il quale

io cessa di essere io. Da molto tempo continua Kundera, nella

mia immaginaria galleria di arte moderna, Bacon e Beckett formavano una coppia. Poi,

però, lessi un'intervista a Bacon in cui diceva. Mi ha sempre sorpreso l'accostamento

fra me e Beckett. Ho sempre pensato che Shakespeare abbia espresso in maniera più forte e più

esatta quello che Beckett cerca di dire. Mi chiedo se le idee di Beckett sulla propria

arte non hanno finito per uccidere la sua opera. Vi è in lui qualcosa di troppo sistematico

e insieme di troppo colto ed è quello che mi ha sempre infastidito.

E per finire, sempre Bacon su Beckett dice, in pittura si concede sempre troppo all'abitudine

e non si elimina mai abbastanza, ma con Beckett ho spesso avuto l'impressione che

a furia di eliminare non si è rimasto niente e che in definitiva questo niente suonasse vuoto.

Ecco, continua Kundera. Quando un'artista parla di un'altra artista, dice Kundera,

parla sempre di sé stesso e proprio in questo risiede il valore del suo giudizio e dunque

che cosa ci sta dicendo di sé Bacon quando parla male di Beckett, che rifiuta di essere

classificato, ecco cosa ci sta dicendo, che vuole proteggere la propria opera dagli

stereotipi, ma non solo, che resiste ai dogmatici del modernismo per esempio,

i quali hanno innalzato una barriera fra la tradizione e l'arte moderna. Ma il passato

non è morto, dice anche Faulkner, non è nemmeno passato. Dunque Bacon si rialaccia

alla storia intera dell'arte, il ventessimo secolo in cui egli vive non ha cancellato i

debiti che abbiamo ad esempio nei confronti di Shakespeare e di tutta l'arte del passato.

E ancora, Bacon si rifiuta di esprimere in maniera troppo sistematica le sue idee

sull'arte, nel timore di soffocare la sua creatività e nel timore che la sua

arte si trasformi in un messaggio semplicistico. E gli sa che il rischio è grande, tanto più

che l'arte del 900 è incrostata da una chiassosa logorea teorica. Appena può Francis Bacon confonde

le acque per disorientare chi vuole ridurre la sua opera a un programma elementare. Erestiva

a usare per esempio a proposito dei suoi quadri il termine orrore, come fanno tutti. Sottolinea il

ruolo decisivo che ha, il caso che l'avrebbe detto, per esempio una chiazza di colore posata in modo

fortuito che cambia di colpo il soggetto il significato del volto o del corpo che stava

dipingendo. Insiste inaspettatamente sulla parola gioco, mentre in genere non si fa altro che

saltare la drammaticità dei suoi dipinti. E allora parlano a Francis Bacon della sua disperazione

e bene, precisa lui, la mia è una disperazione gioiosa. Al pari di Bacon continua Milan Cundera,

Bacon non si faceva illusioni sul futuro del mondo né su quello dell'arte. E nel momento in cui

tutte le illusioni crollano hanno entrambi la stessa reazione, straordinariamente interessante e

significativa. Le guerre, le rivoluzioni e il loro fallimento, i massacri, l'impostura

democratica, tutti questi temi sono assenti dalle loro opere. Ionesco si interessa ancora

dei grandi problemi politici. In Beckett non c'è nulla di analogo. Picasso dipinge Gernica,

un soggetto inimmaginabile in un quadro di Bacon. Quando si vive la fine di una civiltà,

così come Beckett e Bacon la vivono o credono di viverla, il confronto ultimo è brutale non

è più con la società, con lo stato, con la politica, ma con la materialità fisiologica

dell'uomo. Ecco perché il grande soggetto della crocifissione, che un tempo concentrava in sé

tutta l'etica, tutta la religione, diciamo pure tutta la storia dell'Occidente, nella

pittura di Francis Bacon si tramuta in un semplice scandalo fisiologico. Diceva Bacon,

mi hanno sempre colpito le immagini dei mattatoi e di carne macellata e per me sono

strettamente legate alla crocifissione. Ho visto fotografie straordinarie di bestie colte

nel momento in cui venivano condotte al macello e l'odore di morte.

Associare Gesù crocifisso ai mattatoi e alla paura delle bestie condotte al macello potrebbe

sembrare sacrilego di seconda. Ma Bacon non è credente e la nozione di sacrileggio non rientra

nel suo modo di pensare. Per lui, l'uomo si rende ormai conto che la propria esistenza

è un puro accidente del tutto privo di senso e che lui stesso deve, senza ragione, stare

al gioco fino in fondo. Da questo punto di vista, dice sempre Cundera, Gesù sarebbe

appunto un accidente che, senza ragione, è stato al gioco fino in fondo e la croce rappresenta

proprio la fine del gioco. No, qui non c'è sacrileggio, c'è invece uno sguardo lucido,

triste e pensieroso che cerca di cogliere l'essenziale. E che cosa si rivela di essenziale quando

tutte le utopie sociali sono svanite e l'uomo vede annullarsi qualunque possibilità religiosa?

Il corpo, il solo ecce omo, evidente, patetico e concreto. Tra le frasi più celibri di Francis

Bacon c'è questa che qui vi riporto. Noi siamo carne, siamo carcasse in potenza. Quando

vado dal macellaio sono sempre stupito di non essere io a peso là, al posto dell'animale.

Questo, dice Cundera, non è pessimismo, né disperazione. È una semplice evidenza che

di regola viene offuscata dal nostro appartenere a una società che ci fa velo con i suoi

sogni, i suoi entusiasmi, i suoi progetti, le sue illusioni, le sue lotte, le sue religioni,

le sue ideologie. E poi, un giorno, il velo cade e ci lascia soli con il corpo, alla mercè

del corpo, come una ragazza di Praga dopo l'invasione sovietica. Quella ragazza, dice

Cundera, sconvolta dall'interrogatorio, andava in bagno ogni cinque minuti. La ragazza era

ridotta alla sua paura, alla furia delle sue viscere e al rumore dell'acqua che sentiva

scorrere nel serbatoio dello sciacquone. Esattamente come io la sento scorrere quando

lo guardo figura davanti a un lavandino del 1976 o il trittico del 1973 di Francis Bacon.

Ciò che la ragazza doveva affrontare a un certo punto non era più la polizia, ma il

proprio intestino. E se qualcuno ha presieduto, invisibile, a quella piccola scena di orrore,

non è stato certo un poliziotto, un carnefice, ma un dio, o un antidio, il dio cattivo dagli

gnostici, un demiurgo, con lui che ci aveva presa in trappola per sempre con questo accidente

del corpo da lui costruito nel suo laboratorio e di cui, per qualche tempo, noi siamo costretti

a diventare l'anima.

Francis Bacon, in questo laboratorio del creatore o del demiurgo, andava spesso a curiosare.

Lo si vede, per esempio, nei quadri intitolati studi del corpo umano, in cui egli lo smaschera

questo corpo umano come puro accidente, un accidente che avrebbe potuto essere fatto

anche diversamente, che so io con tre mani o con gli occhi sulle ginocchia.

Questi, dice Milan Cundera, sono i suoi quadri che mi riempiono d'orrore. Ma è orrore

la parola giusta? No. Per la sensazione che suscitano, la parola giusta non esiste.

Ciò che essi suscitano non è l'orrore a noi noto, quello delle follie della storia,

della tortura, della persecuzione, della guerra, dei massacri. No. È un orrore diverso.

Proviene dal carattere accidentale, repentinamente svelato dal pittore del corpo umano.

Che cosa ci rimane quando si è scesi così in fondo?

Il volto. Il volto che c'è da il tesoro, del diamante nascosto, quell'io infinitamente

fragile che rabbrividisce dentro un corpo. Il volto sul quale fisso lo sguardo per trovare

in esso una ragione per vivere. Così parlò Milan Cundera a proposito di Francis Bacon.

Noi, a nostra volta, abbiamo chiamato Cundera davanti al fuoco intorno al quale, da qualche

settimana, ci stiamo ritrovando. Gli abbiamo dato la parola perché ci illuminasse su uno

dei più audaci indagatori della nostra essenza. Adesso lo guardiamo a lontanarsi, svanire

nell'ombra. Magari un giorno tornerà a trovarci e noi saremo ancora qui per ascoltare.

Fare un fuoco è un podcast settimanale di Lucy scritto e condotto da me, Nicola La

Gioia. Le musiche originali, il montaggio e il sound design sono di Sharon DeLorean.

La cura editoriale è di Giada Arena e Lorenzo Grammatica. A venerdì prossimo.

Machine-generated transcript that may contain inaccuracies.

Ci sono artisti le cui opere ci fanno interrogare sui confini del corpo e dell’identità, come Francis Bacon. Con l’aiuto di Milan Kundera, nella sesta puntata ci chiediamo: fino a che grado di distorsione un individuo rimane se stesso?

Fare un fuoco è il podcast di Lucy che racconta come le storie continuano ad accendere la nostra immaginazione. Ogni venerdì una nuova puntata, scritta e condotta da Nicola Lagioia.
Le musiche originali, il montaggio e il sound design sono di Shari DeLorian, la cura editoriale è di Giada Arena e Lorenzo Gramatica. Si ringrazia Spreaker per il supporto tecnico.

Segui Lucy - Sulla cultura:
https://lucysullacultura.com/
https://www.instagram.com/lucy.sullacultura/
https://www.tiktok.com/@lucy.sullacultura
https://www.youtube.com/@lucysullacultura/
https://www.facebook.com/sullacultura.lucy/