Ma perché?: 91 | Ma perché siamo ossessionati dalla performance?
Radio Deejay 5/13/23 - Episode Page - 7m - PDF Transcript
Se ne parla ormai molto sui social, sicuramente, ma anche si comincia a farlo in tv.
Il tema legato alla performance non riguarda più soltanto una piccola fetta della società,
così come si sosteneva fino a qualche tempo fa, se ci pensate, come se poi la questione
fosse rilevante unicamente all'interno di una nicchia precisa.
Sono tantissimi infatti oggi gli articoli e gli esperti che sempre di più vengono chiamati
a commentare e a offrire in qualche modo analisi rispetto a ciò che tutti e tutte in realtà
dentro sentiamo.
Adulti e meno adulti.
La nostra è una società ossessionata dalla performance.
Ma perché?
Io sono Marco Maesano e ogni giorno, assia macchine sapi di me, provo a ripartire delle
basi per rispondere alla domanda più semplice del mondo.
Ma perché?
Prima lo accennavo, se ci pensate è davvero così.
Fino a un po' di tempo fa le discussioni attorno a questo tema, a quello della performance
appunto, venivano ridotti per lo più a quelli che noi chiamiamo pippe, no, le pippe mentali.
Ma va, ma cosa c'entra?
In realtà la tua è soltanto ambizione, non sei ossessionato, è solo che voglia di fare
di più, di fare meglio, desideri di mostrare a te stesso che vali.
Ora, sia chiaro, la voglia di fare meglio o essere ambiziosi è una cosa sana, va benissimo,
cosa c'è di male, niente.
Diversa cosa però è per esempio confrontarsi di continuo con gli altri, pensare di dover
fare di più perché tutti gli altri fanno di più e star sene come dire un po' fermi
perché magari se voglia di un po' di di relax diventa quasi una colpa, pensateci ci
succede.
Ciò che però desidero fare con la puntata di oggi non è trovare certamente una cura
a questa sensazione negativa, ci mancherebbe, il senso di oggi è lavorare sulla consapevolezza,
rendersi conto che sì, questa società, la nostra, è ossessionata dalla performance.
Ma perché?
A rispondere alla domanda di oggi è Giulio Costa, psicologo e psicoterapeuta, autore
del libro La Disciplina dell'imperfezione, navigare tra le nuove fragilità contemporane,
edito da Sperling & Kupfer.
Siamo ossessionati della performance perché la nostra società contemporanea è diventata
intollerante all'imperfezione.
Byunjul Han, filosofo sudcoreano, ha descritto la nostra attuale società performativa e
algofobica, performativa perché è ossessionata dai risultati e algofobica perché è terrorizzata
dal venir a contatto con la sofferenza e che quindi si rifugia nella ricerca della
perfezione e dei risultati vincenti per anestetizzarsi da quel dolore.
È come se avessimo abolito ogni discorso riguardante il fallimento e la vulnerabilità
e così facendo abbiamo abbandonato il nostro sguardo per riconoscerci attraverso ciò
che siamo realmente esseri umani e in quanto tali fragili per natura, così facendo però
ci riconosciamo non per ciò che siamo, ma per ciò che facciamo.
La nostra identità è diventata un brand, una sorta di logo che acquista valore solo
attraverso gli obiettivi che portiamo a termine nella giornata, i successi e i task di lavoro
che raggiungiamo, i voti che ci vengono assegnati a scuole all'università, i mi piace e i followers
che collezioniamo sui social.
Ci raccontiamo come un mantra che va tutto bene, ma sappiamo dentro di noi che non è
vero e continuiamo in perterriti questa danza, muovendoci tra l'evitamento e la negazione
della nostra imperfezione, finché a un certo punto qualche evento imprevedibile anche
di percebanale, non necessariamente qualcosa di drammatico o catastrofico, genera una
crepa in noi, facendo uscire magari in maniera disfunzionale con dei sintomi quelle fragilità
che chiedevano solo di essere viste, accettate, riconosciute, ascoltate, senza vergogna.
Le ferite, quelle che ci portiamo dentro e che poi affiorano, non sono mai dei punti
di arrivo, ma sono delle ripartenze.
I sociologi dicono che per comprendere lo stato di salute di una società bisogna guardare
i suoi figli, ai nostri ragazzi, e sono proprio loro quelli che più ne stanno pagando il
prezzo, ce lo raccontano gli insegnanti a scuola, i genitori, le viste d'attesa infinite
serviti di neuropsychiatria in tutta Italia, i titoli dei giornali.
Dire ancora che colpa della pandemia è un cliché persistente che ci serve per déresponsabilizzarci
come comunità educante, che tiene sotto sequestro i corpi dei ragazzi, obbligandoli ad adeguarsi
a modelli votate al successo, alla perfezione o all'invincibilità ad ogni costo.
Tuttavia, proprio questi ragazzi, quelli della cosivetta generazione zeta, grazie al modello
dei loro fratelli maggiori, quei giovani adulti che stanno sduganando lo stigma della
richiesta d'aiuto psicologico, chiedono a gran voce che gli adulti possano accoglierli
nella loro imperfezione e vulnerabilità, anche se si trovano alla periferia di un perverso
sistema meritocentrico.
Anzi che quindi continuare ad illuderci che volere potere, che il limite non esiste se
non quello che ci pogniamo noi e che non si molla di un centimetro, dovremmo forse fare
le nostre le parole di Niccolò Fabi, quando canta che costruire e saper rinunciare alla
perfezione.
Grazie a Giulio Costa, lui nel suo intervento di poco fa Costa parlava anche di merito,
noi abbiamo affrontato il tema del merito appunto qui, ma perché ci torneremo probabilmente
su.
Però ecco, pensare alla performance, rendendosi conto che a volte questa non dipende da noi,
non è una questione quantitativa e soprattutto non è una questione di merito, ecco questa
consapevolezza io la trovo particolarmente liberatoria.
Io vi ringrazio per essere rimasti con me anche oggi, ma perché torna lunedì, ciao!
Ma perché è un podcast scritto da me, Marco Maesano, riprese e montaggio Giulio Rondolotti,
musici originali Matteo Cassi, supervisione tecnica Gabriele Rosi, responsabile di produzione
Dennis Stucchi, una produzione One Podcast.
Stati omiti, anni 50, siamo in piena guerra fredda, il governo americano è disposto a
tutto per dibattere il nemico, dagli esperimenti con il porridge radioattivo, alle ignizioni
di plutonio sui soldati, fino ad arrivare ad un esperimento che ha dell'incredibile.
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Fare di più, fare meglio, essere i primi... Parole d'ordine che con gli anni hanno perso la loro efficacia attrattiva. Pensare di non avere voglia di combattere fino all'ultimo non è più un tabù. Una nuova consapevolezza si sta facendo largo tra le generazioni più giovani. Sono sempre di più quelli che ammettono che la nostra società è ossessionata dalla performance. Ma perché? Ne parlo con Giulio Costa.
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